sabato 28 febbraio 2009

Avv. Bruno Molinaro, 30.05.2007 - Nuovo alt della cassasione al condono edilizio nelle zone vincolate… ma restano i dubbi sulla ermeneusi restrittiva

30.05.2007 - Nuovo alt della cassasione al condono edilizio nelle zone vincolate… ma restano i dubbi sulla ermeneusi restrittiva della norma

________________
NOTA A MARGINE DELLA SENTENZA DELLA TERZA SEZIONE PENALE N. 6431 DEL 15 FEBBRAIO 2007
________________
di Bruno Molinaro
SOMMARIO: 1. L’orientamento consolidato della Corte: il vincolo esclude la sanatoria per le nuove costruzioni, ammettendola solo per gli interventi edilizi minori (art. 32, comma 26, lett. a), d.l. n. 269/2003 ). 2. Le obiezioni alla interpretazione restrittiva della norma. 3. La “non rilevanza” - per i giudici di legittimità - delle argomentazioni addotte dai sostenitori della tesi “estensiva” dei limiti di applicabilità del terzo condono edilizio. 4. Le ragioni per le quali l’ermeneusi riduttiva della norma non convince appieno. 5. La difficoltà di operare correlazioni fra una normativa condonistica, eccezionale e di stretta interpretazione ( art. 32 d.l. n. 269/2003 ), ed altra generale, come quella introdotta dal Codice Urbani ( d.lgs. n. 42/2004 ) in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio. 6. La conferenza dei servizi e la inammissibilità di un’interpretazione coordinata degli artt. 20, comma 6, e 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001. 7. La circolare esplicativa del Ministero delle Infrastrutture n. 52/2006 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 49/2006, secondo cui la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è da escludere solo si tratti di vincolo di inedificabilità assoluta. 8. Conclusioni.
* * * * * * *
1. L’orientamento consolidato della Corte: il vincolo esclude la sanatoria per le nuove costruzioni, ammettendola solo per gli interventi edilizi minori (art. 32, comma 26, lett. a), d.l. n. 269/2003 ).1.1. Con la sentenza che si annota, la Corte di Cassazione, terza sezione penale, ribadisce il suo consolidato orientamento in materia di sanatoria straordinaria introdotta con il d.l. n. 269 del 2003, convertito nella l. n. 326 del 2003, secondo il quale le nuove costruzioni realizzate in assenza del titolo abilitativo edilizio e in area assoggettata a vincolo non sono suscettibili di sanatoria, ostandovi il disposto dell’art. 32, comma 26, lett. a), dello stesso d.l. n.269. In particolare, ritiene la Corte che, nelle aree sottoposte a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e paesistici, la norma anzidetta ammetta la possibilità di ottenere la sanatoria per i soli interventi edilizi di restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria e non anche per gli interventi innovativi, comportanti incremento di superficie e di volume. I punti fermi di tale restrittivo orientamento, sottolineati anche dalla decisione in commento, sono i seguenti: I. <>. II. <>.2. Le obiezioni alla interpretazione restrittiva della norma.2.1. A tale indirizzo sono state mosse varie obiezioni, talune - nel giudizio che ne occupa - ad opera dello stesso ricorrente, sulla base di diffuse argomentazioni, sulle quali i giudici della nomofilachia hanno preso posizione nel tentativo, non troppo riuscito, come meglio si vedrà in seguito, di scardinarne la fondatezza sia sul piano logico che su quello più propriamente giuridico. Quelle del ricorrente, cui la Corte ha fornito risposta ( rigettandole ), possono così riassumersi:2.2. L’art. 43 del d.l. n. 269 del 2003, che ha integralmente sostituito l’art. 32 della legge n. 47 del 1985, ha ripudiato l’istituto del silenzio – assenso , attribuendo al comportamento omissivo, protrattosi oltre 180 giorni dalla richiesta di parere, valenza di silenzio – rifiuto per tutti i tipi di vincoli. Ai fini dell’acquisizione dei pareri “si applica quanto previsto dall’art. 20, comma 6, del D.P.R. n. 380/01” ed “il motivato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela della salute preclude il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria” ( comma 4 ). “Il parere non è richiesto quando si tratti di violazioni riguardanti l’altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte” ( previsione, quest’ultima, contenuta anche nella precedente formulazione ).2.3. In relazione alla intervenuta sostituzione dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985, le tipologie d’intervento ammesse a condono non potrebbero di certo essere circoscritte a quelle elencate nei nn. 4, 5 e 6 dell’allegato 1. Non avrebbe senso, infatti, la obbligatoria convocazione di una “dispendiosa” conferenza di servizi per opere di minima importanza ( quali la manutenzione straordinaria, il restauro ed il risanamento conservativo ), né avrebbe senso richiedere per le medesime opere la acquisizione del parere paesaggistico, stante la disposizione che tale parere invece esclude “quando si tratti di violazioni riguardanti l’altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte ( violazioni queste ultime considerate più gravi di quelle che possono commettersi in occasione dell’esecuzione degli interventi di manutenzione e restauro).3. La “non rilevanza” - per i giudici di legittimità - delle argomentazioni addotte dai sostenitori della tesi “estensiva” dei limiti di applicabilità del terzo condono edilizio.3.1. Tali argomentazioni non appaiono “conducenti”, secondo i giudici di legittimità, in quanto esse non tengono in conto che: A) Nelle zone paesaggisticamente vincolate è inibita - in assenza dell'autorizzazione già prevista dall'art. 7 della legge n. 1497 del 1939, le cui procedure di rilascio sono state innovate dalla legge n. 431/1985 e sono attualmente disciplinate dall'art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 - ogni modificazione dell'assetto del territorio, attuata attraverso lavori di qualsiasi genere, non soltanto edilizi, con le deroghe eventualmente individuate dal piano paesaggistico, ex art. 143, 5° comma - lett. b, del d.lgs. n. 42/2004, nonché ad eccezione degli interventi previsti dal successivo art. 149 e consistenti (tra l'altro) nella manutenzione, ordinaria e straordinaria, e nel consolidamento statico o restauro conservativo, purché non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici. B) Qualora un qualsiasi intervento edilizio da realizzarsi mediante d.i.a. (quali la manutenzione straordinaria, il restauro ed il risanamento conservativo) riguardi immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 (codice dei beni culturali e del paesaggio), della legge n. 394/1991 (legge-quadro sulle aree protette), della legge n. 183/1989 (norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo) e del d.lgs. n 152/2006 (norme in materia ambientale), l'effettuazione dello stesso è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative (art. 22, 6° comma, del d.P.R. n. 380/2001). Nell'ambito delle norme di tutela rientrano, altresì, le previsioni: - dei piani territoriali paesistici o dei piani urbanistico - territoriali aventi le medesime finalità di salvaguardia dei valori paesistici e ambientali; - degli strumenti urbanistici, qualora siano espressamente rivolte alla tutela delle caratteristiche paesaggistiche, ambientali, storico -archeologiche, storico - artistiche, storico - architettoniche e storico - testimoniali. C ) - La previsione dell'art. 32 della legge n. 47/1985 - secondo la quale "il parere non è richiesto quando si tratti di violazioni riguardanti l'altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte" [identica sia nel testo precedente, più volte modificato fino alla formulazione risultante in seguito alla legge n. 662/1996, sia in quello novellato dal d.l. n. 269/2003] - non è riferita, ad evidenza, al solo vincolo paesaggistico, bensì a tutte quelle situazioni in cui l'esistenza di un "vincolo" (quale limitazione alla sfera di godimento e disposizione di un bene per il soddisfacimento e la tutela di interessi pubblici) è affermata dal legislatore, con terminologia sicuramente generica e per alcuni versi pure impropria, in relazione a fattispecie anche molto diverse quanto a disciplina giuridica, contenuti ed effetti. Con elencazione avente carattere meramente esemplificativo può ricordarsi che l'art. 32 inerisce - oltre che ai vincoli paesistici ed ambientali - ai vincoli storici, artistici, architettonici ed archeologici; ai vincoli idrogeologici; ai vincoli previsti per i parchi e le aree naturali protette; ai vincoli derivanti dall'esistenza di usi civici; ai vincoli derivanti dalle "zone di rispetto" del demanio stradale, ferroviario ed aeroportuale, dei cimiteri; alle prescrizioni imposte per le costruzioni da eseguirsi in zone sismiche; ovvero ad altre limitazioni poste dal d.m. 1.4.1968, n. 1404. Quanto al vincolo paesaggistico, la disposizione in esame può razionalmente correlarsi soltanto ad eventuali prescrizioni poste dal piano paesaggistico, ex art. 143, 5° comma - lett. b, del d.lgs. n. 42/2004, nonché a previsioni degli strumenti urbanistici espressamente rivolte alla tutela delle caratteristiche paesaggistiche ed ambientali. D ) - Il riformulato 4° comma dell'art. 32 della legge n. 47/1985 si limita a stabilire che "ai fini dell'acquisizione del parere di cui al comma 1 si applica quanto previsto dall'articolo 20, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380". Il richiamato art. 20, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001 dispone, a sua volta, che, "nell'ipotesi in cui, ai fini della realizzazione dell'intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre Amministrazioni, diverse da quelle di cui all'art. 5, comma 3 [atti di assenso, cioè, diversi dal parere dell'A.S.L. e dal parere dei Vigili del Fuoco, ove necessari n.d.r.], il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi, ai sensi degli artt. 14, 14bis, 14ter e 14 quater della legge n. 241/1990 e successive modificazioni". Ai sensi dell'art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001, l'ufficio dello sportello unico per l'edilizia cura gli incombenti necessari ai fini dell'acquisizione, anche mediante conferenza di servizi, ai sensi degli artt. 14, 14 bis, 14 ter e 14 quater della legge n. 241/1990, degli atti di assenso comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell'intervento edilizio). Un'interpretazione coordinata degli artt. 20, comma 6, e dell'art. 5, comma 4, del T.U. n. 380/2001 non consente però di affermare che l'ufficio comunale sia imprescindibilmente obbligato a convocare una conferenza di servizi qualora sia necessario acquisire l'assenso di altre Amministrazioni (in difformità dal previgente art. 4, 2° comma, del d.l. n. 398/1993, che conferiva al responsabile del procedimento soltanto la facoltà discrezionale di detta convocazione). Appare corretta invece, in proposito, l'applicazione dell'art. 14, 2° comma, della legge n. 241/1990, come modificato dalla legge n. 15/2005, ove si stabilisce l'obbligatorietà della conferenza di servizi quando l'Amministrazione competente per l'adozione del provvedimento finale debba acquisire atti di assenso comunque denominati ad un'attività privata, provenienti da altre Amministrazioni, e non li ottenga entro 30 giorni dalla ricezione della relativa richiesta. Il dirigente o responsabile dell'ufficio comunale, dunque, nel termine che ha a disposizione per l'istruttoria, deve anzitutto richiedere gli atti di assenso alle altre Amministrazioni coinvolte e, solo qualora queste non si pronuncino entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta (ovvero quando, nello stesso termine, sia intervenuto il dissenso di una o più Amministrazioni interpellate), deve essere convocata la conferenza. E ) – In conclusione, secondo la Corte, <>.4. Le ragioni per le quali l’ermeneusi riduttiva della norma non convince appieno.4.1. Tale complesso ragionamento, pur sottintendendo un apprezzabile sforzo ermeneutico che, nelle precedenti decisioni sul tema, non trova eguali riscontri, non pare colga nel segno soprattutto perché non del tutto aderente al dato normativo.4.2. Intanto non appare pertinente il richiamo all’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, secondo cui nelle zone paesaggisticamente vincolate è inibita, in assenza dell’autorizzazione già prevista dall’art. 7 della legge n. 1497 del 1939, “ogni modificazione dell’assetto del territorio attuata attraverso lavori di qualsiasi genere, non soltanto edilizi, ad eccezione dei lavori consistenti ( tra l’altro ) nella manutenzione ordinaria e straordinaria e nel consolidamento statico o restauro conservativo, purchè non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”. Ciò perché la norma in esame disciplina gli interventi da realizzare e non anche quelli già realizzati, la cui regolarizzazione è riservata – a determinate condizioni – alle fattispecie di sanatoria straordinaria o a quella c.d. “a regime”. Sul punto, va ricordato che, come chiarito dalla stessa Cassazione penale con riferimento all’ambito di applicazione del regime autorizzatorio, avente ad oggetto le opere da eseguire “ex novo”, “non ogni opera che interessi la superficie esterna determina “alterazione”, ma esclusivamente quella che ne immuti in modo rilevante ed essenziale le sue caratteristiche ( cfr., negli esatti termini, Cass., sez. III, 26.5.1992, n. 660; negli stessi sensi, Cass., sez. III, 30.9.1993, n. 1813, e Cass., sez. III, 26.4.1999, n. 5304 ). Inoltre, il comma 26 dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 non pone alcuna distinzione tra opere di manutenzione ordinaria e straordinaria idonee ad alterare lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici ed opere appartenenti alla medesima tipologia edilizia che tale idoneità invece non hanno.4.3. Per le stesse ragioni non appare pertinente il richiamo all’art. 22 del d.P.R. n. 380 del 2001 che si occupa degli interventi “realizzabili mediante denuncia di inizio attività” e non anche - logicamente – delle opere già eseguite, in disparte ogni questione sulla riferibilità o meno della limitazione di cui al comma 6 ( obbligo del preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative ) agli “immobili sottoposti a tutela storico – artistica o paesaggistico – ambientale”, intesi come immobili in senso stretto e non anche come aree ( in ordine alla dicotomia “aree ed immobili”, cfr. l’art. 134 del codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 cit. ), dove per immobili si intendono quelli di cui alle tipologie nn. 1 e 2 dell’articolo 1 della legge n. 1497 del 1939, cioè le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica, le ville, i giardini e i parchi, intendendosi designare con il termine “immobili” determinati beni - giuridicamente e catastalmente – tendenzialmente unitari . 4.4. A voler seguire l’interpretazione della Corte, la stessa non tiene conto, comunque, di quanto previsto dall’art. 149 del d.lgs n. 42 del 2004, che esclude, come è noto, l’obbligo della autorizzazione prescritta dall’articolo 146, dall’articolo 147 e dall’articolo 159: “a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici; b) per gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio; c) per il taglio colturale, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di conservazione da eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati dall'articolo 142, comma 1, lettera g), purché previsti ed autorizzati in base alla normativa in materia”. La deroga al regime autorizzatorio, sia pure per determinate tipologie di intervento, segna il confine, delimitando l’ambito di applicazione, nelle zone paesaggisticamente vincolate, dello stesso regime inibitorio che, pertanto, non può essere inteso come assoluto, ovvero riferito a “lavori di qualsiasi genere”. Anzi, quel che maggiormente rileva è che, mentre la disciplina introdotta dall’art. 149 cit. fa salvi ( nel senso che non ne richiede l’autorizzabilità “ex ante” ) i soli interventi edilizi minori di recupero del patrimonio edilizio esistente, l’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, al comma 43, esclude dall’obbligo del preventivo parere ( come, peraltro, già previsto dall’originaria formulazione della norma ) “le violazioni riguardanti l’altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte”. Trattasi, con tutta evidenza, di abusi che, nella maggior parte dei casi, hanno, comunque, prodotto modifiche “alterative” con incrementi planovolumetrici e, pertanto, diversi, per loro natura e caratteristiche, dagli interventi edilizi minori di tipo “conservativo”, per i quali è escluso, come già detto, l’obbligo dell’autorizzazione qualora “non alterino” lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici.5. La difficoltà di operare correlazioni fra una normativa condonistica, eccezionale e di stretta interpretazione ( art. 32 d.l. n. 269/2003 ), ed altra generale, come quella introdotta dal Codice Urbani (d.lgs n. 42/2004) in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio.5.1. Non del tutto convincente è, poi, l’argomentazione addotta dalla Corte secondo cui l’art. 32 della legge n. 47/1985, per il quale “il parere non è richiesto quando si tratti di violazioni riguardanti l’altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2% delle misure prescritte”, inerendo – oltre che ai vincoli paesistici ed ambientali – anche a vincoli di diversa natura, come ad es., ai vincoli artistici, architettonici, archeologici ed idrogeologici, può razionalmente correlarsi, quanto al vincolo paesaggistico, “soltanto ad eventuali prescrizioni poste dal piano paesaggistico, ex art. 143, 5° comma – lett. b, del d.lgs. n. 42/2004, nonché a previsioni degli strumenti urbanistici espressamente rivolte alla tutela delle caratteristiche paesaggistiche ed ambientali” . Tale argomentazione omette di considerare, innanzitutto, che l’art. 143, 5° comma, lett. b), disciplina – in ambito regionale - l’attività pianificatoria, nella quale la (possibile) individuazione delle opere e degli interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica è subordinata “alla verifica della conformità alle previsioni del piano paesaggistico e dello strumento urbanistico”, nel mentre l’ambito di operatività dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, nella parte in cui esclude l’obbligo del parere per le violazioni che non eccedono il 2%, è esteso – come è noto – all’intero territorio nazionale. Inoltre, la lettera c ( del comma 5 ) dell’art. 143 fa riferimento alle “aree significativamente compromesse o degradate”, nelle quali la realizzazione degli interventi di recupero e riqualificazione potrà non richiedere “il rilascio dell’autorizzazione di cui agli articoli 146, 147 e 159”. Ma tali interventi sarebbero pur sempre confinati all’interno del perimetro degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente e, data la lettera tassativa della norma, non potrebbero giammai concretizzarsi in opere costituenti incrementi di superficie e di volume. L’art. 32, di contro, esonera dall’obbligo del parere gli interventi che hanno provocato incrementi sia di altezza che di volumetria e superficie e che, pertanto, non possono essere ricondotti al novero degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente. A ciò aggiungasi che l’applicazione dell’art. 143, comma 5, è fatta salva dall’art. 149 (“Interventi non soggetti ad autorizzazione”) con riferimento non già alla lettera b), bensì alla lettera a). Non appare, comunque, ragionevole ed ermeneuticamente corretto operare correlazioni tra una normativa condonistica, quale quella del citato art. 32, di stretta interpretazione, come riconosciuto dalla stessa Cassazione, con altra normativa come quella introdotta dal d.lgs. n. 42 del 2004, per giunta entrata in vigore in epoca successiva ed agganciata, per quel che attiene alla pianificazione paesaggistica, ad eventi futuri ed incerti. Si richiama, a titolo esemplificativo, la disposizione di cui al comma 7 dell’art. 143, secondo cui: “Il piano può subordinare l’entrata in vigore delle disposizioni che consentono la realizzazione di opere ed interventi senza autorizzazione paesaggistica, ai sensi del comma 5, all’esito positivo di un periodo di monitoraggio che verifichi l’effettiva conformità alle previsioni vigenti delle trasformazioni del territorio realizzate”.6. La conferenza dei servizi e la inammissibilità di un’interpretazione coordinata degli artt. 20, comma 6, e 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001.6.1. Ma il punto critico più significativo del ragionamento seguito dalla Corte per confutare le obiezioni mosse alla anzidetta interpretazione dell’art. 32, comma 26 (considerata nel ricorso non condivisibile, perché ingiustificatamente restrittiva), sta nella affermazione secondo cui, “per l’acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, la conferenza di servizi non è imprescindibilmente obbligatoria”. In altri termini, come già anticipato, un’interpretazione coordinata degli artt. 20, comma 6, e dell’art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/01, per i giudici di legittimità, “non consente di affermare che l’ufficio comunale sia imprescindibilmente obbligato a convocare una conferenza di servizi qualora sia necessario acquisire l’assenso di altre Amministrazioni ( in difformità dal previgente art.4, 2° comma, del d.l. n. 398/1993, che conferiva al responsabile del procedimento soltanto la facoltà discrezionale di detta convocazione ). Appare corretta invece, in proposito, l’applicazione dell’art. 14, 2° comma, della legge n. 241/90, come modificato dalla legge n. 15/05, ove si stabilisce l’obbligatorietà della conferenza dei servizi quando l’Amministrazione competente per l’adozione del provvedimento finale debba acquisire atti di assenso comunque denominato ad un’attività privata, provenienti da altre Amministrazioni, e non li ottenga entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta ( ovvero quando, nello stesso termine, sia intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate )”. Sempre secondo la Corte, ai sensi dell’art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001, l’ufficio dello sportello unico per l’edilizia “cura gli incombenti necessari ai fini dell’acquisizione anche mediante conferenza ai sensi degli artt. 14, 14 bis, 14 ter e 14 quater della legge n. 241/1990 di servizi, degli atti di assenso”. La qualcosa starebbe a significare, come è desumibile dalla locuzione “anche mediante conferenza”, che quest’ultima non è obbligatoria, essendo la relativa convocazione espressione di una mera facoltà discrezionale. Anche in tal caso trattasi, a ben vedere, di osservazioni che non appaiono aderenti al dettato normativo. La questione controversa attiene, infatti, all’ambito di applicazione del comma 26 dell’art. 32. Pertanto, non è dato comprendere quale valenza possa attribuirsi, in concreto, alla disposizione contenuta nell’art. 5, comma 4, del testo unico dell’edilizia, la quale è obiettivamente riferita ai procedimenti ordinari finalizzati al rilascio del permesso di costruire, con la conseguenza che la stessa, stante l’assenza di ogni richiamo o rinvio “ob relationem”, non può spiegare alcuna efficacia nella materia regolata dalla normativa sul condono che – lo si ripete – costituisce normativa di stretta interpretazione per la quale non opera l’analogia. Quel che più conta è che l’art. 32 del d.l. n. 269/2003 stabilisce, senza possibilità di interpretazioni alternative, che: “Ai fini dell’acquisizione del parere di cui al comma 1 si applica quanto previsto dall’articolo 20, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380”. Il richiamato art. 20, comma 6, prevede, a sua volta, che: Nell’ipotesi in cui, ai fini della realizzazione dell’intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre amministrazioni, diverse da quelle di cui all’art. 5, comma 3 ( atti di assenso, cioè, diversi dal parere dell’A.S.L. e dal parere dei Vigili del Fuoco, ove necessari, n.d.r. ), il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi, ai sensi degli artt. 14, 14 bis, 14 ter e 14 quater della legge n. 241/1990 e successive modificazioni”. Stante il testuale tenore delle disposizioni ora citate non appare ammissibile “un’interpretazione coordinata degli artt. 20, comma 6, e dell’art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001”. Tale interpretazione “additiva” si pone contro la lettera della norma ( di per sé sufficientemente chiara ed in quanto tale non suscettibile di alcuna interpretazione secondo il noto brocardo “in claris non fit interpretatio” ) che configura l’iniziativa del “competente ufficio comunale” quale iniziativa dovuta, priva di margini di discrezionalità. D’altra parte, l’obbligatorietà della conferenza appare giustificata dal fatto che, nelle zone assoggettate a vincolo, il legislatore del terzo condono ha ritenuto che l’amministrazione, nell’esaminare le istanze di sanatoria, non possa prescindere dall’obbligo di pronunciarsi espressamente sulle istanze medesime ( vedasi, sul punto, anche Cass. pen, Sez.III , ord. n.102 /1996, secondo cui “gli atti consultivi endoprocedimentali obbligatori – tra cui certamente rientra il parere previsto dall’art.32, comma 1, Legge n. 47 /1985 e successive modificazioni - devono essere richiesti dalla stessa autorità investita del procedimento“ ). All’esame di tali istanze, l’amministrazione provvede, in ogni caso, solo dopo aver acquisito, nei modi e nelle forme previste per la conferenza dei servizi, il parere di competenza degli altri enti coinvolti, ed “il motivato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela ambientale paesaggistico-territoriale, ivi inclusa la soprintendenza competente, alla tutela del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute, preclude il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria“. Trattasi di procedimento applicabile alla sola fattispecie regolata del “terzo” condono, essendo stato stabilito, al comma 43 bis dell’art. 32 del d.l. n.269/2003, che “le modifiche apportate con il presente articolo concernenti l’applicazione delle leggi 28 febbraio 1985, n.47, e 23 dicembre 1994, n.724, non si applicano alle domande già presentate ai sensi delle predette leggi”. Alla stregua di tali considerazioni non appare francamente sostenibile, sia sul piano logico che su quello giuridico, la tesi secondo cui la conferenza dei servizi sarebbe stata prevista esclusivamente per gli interventi edilizi minori. Né persuade, in contrario, la diversa opinione della Corte per la quale tale tesi non sarebbe, poi, tanto illogica dal momento che “anche l’effettuazione degli interventi di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, da realizzarsi in aree assoggettate al vincolo paesaggistico – ambientale, è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative ( si pensi, ad esempio, al notevole impatto che può avere sul paesaggio già il solo rifacimento totale dell’intonacatura e del rivestimento esterno di un edificio qualora ne alteri il precedente aspetto esteriore )”. Si è già osservato in precedenza, in linea con quanto previsto dall’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, che, intanto gli interventi di manutenzione e restauro su immobili sottoposti a vincolo richiedono l’autorizzazione preventiva se ( e nella misura in cui ) gli stessi siano idonei a determinare alterazione dello stato dei luoghi, incidendo in modo giuridicamente rilevante sull’assetto paesaggistico della zona e sull’aspetto esteriore degli edifici (Cass., sez. III, sent. n. 39355 del 29.11.2006; Cass., sez.III, sent. n. 38051 del 28.9.2004; Cass., sez. III, sent. n. 23980 del 26.5.2004; Cass., sez. III, sent. n. 19761 del 29.4.2003; Cass., sez. III, sent. n. 14461 del 28.3.2003; Cass., sez. III, sent. n.12863 del 20.3.2003). Negli altri casi l’autorizzazione è esclusa e gli interventi in questione sono sempre ammissibili. D’altronde, come ritenuto dalla Corte Costituzionale con sentenza del 23.6.2000, n. 238, avuto riguardo proprio agli immobili condonati (la cui legittimità rispetto alle previsioni urbanistiche deriva solo dalla sanatoria-condono ), “la privazione della possibilità ( in via assoluta e generale, senza alcuna valutazione di compatibilità concreta, circa il modo e l’entità degli interventi, con le esigenze di tutela ambientale e – si può aggiungere – urbanistica ), per il titolare del diritto di proprietà su di un immobile, di procedere ad interventi di manutenzione, aventi quale unica finalità la tutela della integrità della costruzione e la conservazione della sua funzionalità, senza alterare l’aspetto esteriore (sagoma e volumetria) dell’edificio, rappresenta certamente una lesione al contenuto minimo della proprietà . Infatti, l’anzidetto divieto incide addirittura sulla essenza stessa e sulla possibilità di mantenere e conservare il bene (costruzione) oggetto del diritto, producendo un inevitabile progressivo abbandono e perimento (strutturale e funzionale) del medesimo. Deve, pertanto, escludersi la legittimità di una disposizione che comporta per il proprietario, ancorchè non espropriato della titolarità, uno svuotamento del suo diritto nel modo più irrimediabile e definitivo, e cioè con graduale degrado e perimento del bene (costruzione) ed una progressiva inutilizzabilità e distruzione dell’edificio, in rapporto alla destinazione inerente alla sua natura, (conforme a licenze, concessioni e autorizzazioni ancorchè in sanatoria)”. [ negli stessi sensi, cfr. sentenza n. 529 del 1995]. Va, peraltro, ribadito che l’art. 32, comma 26, prevede per interventi di manutenzione e restauro, da eseguirsi su immobili assoggettati a vincolo, la necessaria acquisizione “del parere o dell’autorizzazione richiesti”, abbiano o meno – tali interventi – prodotto alterazione dello stato dei luoghi e dell’aspetto esteriore degli edifici. Avendo la norma ( art. 32, comma 4) stabilito che il parere va acquisito, ai sensi dell’art. 20, comma 6, del d.P.R. n. 380 del 2001, ovvero mediante conferenza dei servizi, può fondatamente sostenersi che la sanatoria introdotta dal d.l. n. 269 del 2003, per le opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo, è limitata ai soli abusi minori, compresa la manutenzione che dalla disciplina ordinaria è esonerata dall’obbligo dell’autorizzazione preventiva ( quantomeno nei casi in cui la stessa non determini “alterazione”)? E che dire, poi, della previsione secondo cui, in sede di conferenza di servizi, il mancato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, inclusa la soprintendenza competente, preclude il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria ? È ragionevole ritenere, anche alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale, nelle decisioni sopra riportate, sul “contenuto minimo” della proprietà, che possa essere negato l’assenso alla sanatoria di una manutenzione straordinaria eseguita senza titolo che non abbia determinato alterazione, per giunta all’esito di una conferenza di servizi?7. La circolare esplicativa del Ministero delle Infrastrutture n. 52/2006 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 49/2006, secondo cui la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è da escludere solo se si tratti di vincolo di inedificabilità assoluta.7.1. Non pare decisivo - sul piano della interpretazione del comma 26 – il richiamo alla relazione governativa al d.l. n. 269 del 2003, secondo la quale “…. è fissata la tipologia di opere insanabili tra le quali si evidenziano ... quelle realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio nelle aree sottoposte ai vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e paesistici… Per gli interventi di minore rilevanza ( restauro e risanamento conservativo ) si ammette la possibilità di ottenere la sanatoria edilizia sugli immobili soggetti a vincolo previo parere favorevole da parte dell’autorità preposta alla tutela. Per i medesimi interventi, nelle aeree diverse da quelle soggette a vincolo, l’ammissibilità alla sanatoria è rimessa ad uno specifico provvedimento regionale”. A prescindere dai limiti dell’efficacia delle enunciazioni contenute nella Relazione governativa in sede di Interpretazione del testo normativo – limiti dei quali è consapevole la stessa Corte – va detto, di contro, che la circolare esplicativa del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti pubblicata in G.U. il 3 marzo 2006, n. 52, non contiene alcun riferimento alla interpretazione restrittiva espressa dai giudici della nomofilachia. L’interpretazione fornita dal Ministero delle Infrastrutture sembra avallare la tesi secondo cui, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è da escludere solo se si tratti di vincolo di inedificabilità assoluta (divieti di edificazione o prescrizioni di inedificabilità ex art. 33 legge n. 47 del 1985) e non anche nella diversa ipotesi di vincolo di inedificabilità relativa, ovvero di vincolo di tutela suscettibile di essere rimosso mediante un giudizio ex post di compatibilità delle opere da sanare da parte della competente autorità (cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 696 del 4 maggio 1995). La Corte Costituzionale, con sentenza n. 49 del 2006, ha, infatti, ritenuto che l’art. 3, comma 1, della legge della Regione Lombardia n. 31 del 2004 non sia in contrasto con quanto previsto dall’art. 32, comma 27, lettera d), del decreto legge n. 269 del 2003, norma quest’ultima che, secondo l’interpretazione della Cassazione penale, renderebbe di fatto inapplicabile il condono edilizio nelle aree assoggettate a vincolo, nelle quali potrebbero essere sanati, come si è visto, soltanto gli interventi edilizi c.d. minori. La Consulta ha dichiarato costituzionalmente legittima la disposizione regionale censurata, giacché, a suo avviso, tale norma si limita oggettivamente <<>>. Eppure, la Presidenza del Consiglio dei Ministri – con l’Avvocatura generale – aveva, nel ricorso introduttivo, fortemente sostenuto l’esatto contrario, denunciando il contrasto della disposizione censurata con l’art. 117, terzo comma, Cost. e con il principio posto dall’art. 32, comma 27, lettera d), del decreto – legge n. 269, che <<>>, e senza che lo stesso operi una distinzione tra vincoli di inedificabilità assoluta e vincoli di inedificabilità relativa. La norma regionale, <>, violava anche l’art. 117, secondo comma, lettera I), Cost. in quanto invadeva l’ambito della competenza statale esclusiva in materia di ordinamento civile e penale. Solo in una successiva memoria, l’Avvocatura dello Stato aveva, peraltro, ritenuto coerente con la normativa statale l’interpretazione datane dalla difesa regionale, nel senso che l’Amministrazione non avrebbe fatto altro che ribadire e consacrare, anche in un proprio testo legislativo, quanto già previsto dalla legislazione statale, all’art. 32, comma 27, lettera d). La pronuncia della Corte Costituzionale segna indubbiamente un punto a favore di chi non condivide l’interpretazione restrittiva della Corte di Cassazione in ispecie sul versante degli effetti penali della sanatoria nelle aree assoggettate a vincolo paesistico - - - - . Questo sembra lasciare intendere, sia pure per via indiretta, il Giudice delle leggi nella sentenza n. 49, in cui si sottolinea – lo si ripete – in coerenza con la norma statale, che non tutti i vincoli sono ostativi alla sanabilità ma solo quelli di inedificabilità assoluta. Il rigetto della tesi sostenuta dalla Cassazione affonda le sue radici, a ben vedere, anche in altre ragioni, in gran parte ancorate ai precedenti insegnamenti della stessa Corte anche a Sezioni Unite (cfr, ex plurimis, Cass. SS.UU. n. 22 del 1999, già citata). La fragilità delle argomentazioni addotte è da collegare, in primo luogo, al tentativo – mal riuscito – dei giudici di legittimità di porre sullo stesso piano gli effetti penali ed amministrativi del condono. Ma, già con la sentenza n. 196 del 2004, la Corte Costituzionale aveva avvertito l’esigenza di chiarire che la nuova normativa di condono <<>>. Sempre nella sentenza n. 196 la Corte Costituzionale aveva rimarcato con maggior vigore rispetto al passato il rapporto (e la non necessaria coesistenza) tra effetti amministrativi ed effetti penali della sanatoria, precisando, altresì, come permanga anche con il nuovo condono edilizio la caratteristica fondamentale di mantenere collegato il condono penale con la sanatoria amministrativa, in quanto l’integrale pagamento dell’oblazione, oltre a costituire il presupposto per l’estinzione dei reati edilizi, estingue anche i relativi procedimenti di esecuzione delle sanzioni amministrative e costituisce uno dei requisiti per il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria (art. 32, commi 32 e 37, del decreto – legge n. 269 del 2003). Peraltro, ciò non esclude che, pagata interamente l’oblazione, ai sensi dell’art. 39 della legge n. 47 del 1985 (applicabile – come gli artt. 38 e 44 – in virtù del richiamo operato dal comma 25 dell’art. 32 cit. agli interi capi IV e V della legge n. 47 del 1985), pur in presenza di diniego di sanatoria, si estinguano i reati edilizi e si riducano in misura pari all’oblazione versata le sanzioni amministrative consistenti nel pagamento di una somma di danaro. In altri termini, il potere del giudice penale di non applicare la speciale causa estintiva prevista dalla sanatoria straordinaria (e naturalmente anche di non sospendere il giudizio per i reati ai quali la stessa si riferisce) può essere esercitato nella sola ipotesi in cui dagli atti emerga verosimilmente la violazione, da parte del contravventore, dei limiti temporali e volumetrici nella esecuzione delle opere e non anche quando tali opere non appaiano suscettibili di sanatoria sul piano strettamente amministrativo. A tali fini, come si è visto, persino il diniego di sanatoria della P.A. rappresenta un elemento neutro e del tutto inidoneo a determinare l’esclusione della operatività della causa estintiva, ricollegata – lo si ripete – al solo pagamento dell’oblazione in misura congrua secondo quanto previsto dal richiamato art. 39 della legge n. 47 del 1985. Del resto, sempre sul versante amministrativo, la Cassazione non spiega perché nelle aree vincolate maggiormente “sensibili”, come quelle demaniali, sulle quali siano state eseguite opere abusive, il legislatore del 2003 (art. 32, comma 17) si sia accontentato di subordinare la disponibilità alla cessione dell’area al solo rilascio del parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (che, pertanto, fungerebbe da vincolo relativo, perché rimuovibile ad opera della competente autorità, e non assoluto). Né appare di qualche rilievo la circostanza addotta dalla Corte nella sentenza in commento, per la quale “tale disposizione, riferita alle opere eseguite da terzi su aree di proprietà dello Stato o facenti parte del demanio statale, è significativamente limitata dall’esclusione (posta dal precedente comma 14) del demanio marittimo lacuale e fluviale, nonché dei terreni gravati da diritti di uso civico ( immobili assoggettati a vincolo paesaggistico ex lege)” e che la stessa debba tener conto “dell’ampia nozione di vincolo” che l’art. 32 della legge n. 47/1985 presuppone. Anche qui la norma – nel prevedere una fattispecie di sanatoria a condizione – è sufficientemente chiara e non può essere manipolata con interpretazioni additive, contra o praeter legem. Non spiega la Cassazione perché il controverso comma 26 arrivi a ritagliare un’eccezione all’ambito oggettivo di applicabilità della sanatoria per i soli abusi realizzati su immobili dichiarati monumento nazionale, omettendo di menzionarne altri. La norma prevede, infatti, che sono suscettibili di sanatoria edilizia (tutte) le tipologie di illecito di cui all’allegato 1: a) numeri da 1 a 3 nell’ambito dell’intero territorio nazionale, fermo restando quanto previsto dalla lettera e) del comma 27, nonché 4, 5 e 6 nell’ambito degli immobili soggetti a vincolo di cui all’art. 32 della legge n. 47/1985. La sanatoria abbraccia, dunque, tutte le tipologie di illecito da 1 a 3 (opere nuove senza titolo edilizio o in difformità, in contrasto con gli strumenti urbanistici o conformi agli strumenti urbanistici; ristrutturazioni senza titolo o in difformità dal titolo), escludendo espressamente le sole opere abusive realizzate su immobili assoggettati a vincolo storico – artistico ai quali si riferisce il comma 27, lettera e). Che necessità avrebbe avuto il legislatore, ove la disposizione del comma 26 fosse effettivamente da interpretare nel senso che nelle aree vincolate sono sanabili solo gli interventi edilizi “minori”, di collegare agli abusi “maggiori” le opere eseguite senza titolo su immobili dichiarati monumento nazionale, per giunta vincolati “in individuo” ? E lo stesso comma 27 nemmeno avrebbe avuto motivo di esistere in quanto in esso si fa riferimento a tutti i vincoli riconducibili all’ambito di applicazione dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985. Privo di giustificazione sul piano logico sarebbe stato anche prevedere, come in effetti è avvenuto, con la formulazione della lettera d), che la mancata dimostrazione della conformità delle opere alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici determina l’insanabilità delle opere per le quali è stato richiesto il beneficio condonistico. La sentenza della Corte Costituzionale n. 49 sembra rafforzare – sul piano interpretativo – il convincimento di chi – come lo scrivente – ritiene che l’unico parametro normativo da considerare per delimitare l’ambito oggettivo di applicazione della sanatoria straordinaria nelle aree sottoposte a vincolo sia rappresentato non già dal comma 26 ma piuttosto dal comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003. La Consulta, infatti, non solo omette ogni riferimento al suindicato comma 26 ma, anzi, finisce per offrire una lettura più ampliativa dello stesso comma 27, lettera d), laddove precisa che i soli vincoli di inedificabilità assoluta e non anche quelli di inedificabilità relativa possano essere considerati ostativi alla sanabilità. In altre parole, nelle aree sottoposte a vincolo, sempre che non si tratti di vincolo di inedificabilità assoluta, le opere abusive potranno essere sanate laddove si dimostri la conformità delle stesse alla normativa urbanistica, previo parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, come disciplinato dal nuovo testo dell’art. 32 della legge n. 47/85, nella formulazione introdotta dal comma 43 del decreto - legge n. 269 del 2003 (che prevede una conferenza di servizi cui partecipa necessariamente anche la Soprintendenza territorialmente competente, il cui parere è vincolante).8. Conclusioni.8.1. Ovviamente la difficoltà del tema e le stesse difficoltà applicative della nuova disciplina lasciano immutata la problematica relativa alla “affidabilità del condono edilizio” E’ condivisibile l’opinione di chi sostiene che “il terzo condono non sia risultato affatto appetibile, sia per il prezzo richiesto ( misura dell’oblazione, oneri concessori e quant’altro ), sia per la rigidità delle limitazioni imposte alla sanabilità delle opere abusive. La sanabilità delle opere realizzate nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico costituisce un esempio emblematico: da una parte, l’oscurità del testo legislativo ha indotto gli interessati al condono a presentare, comunque, la relativa domanda versando anche l’oblazione, dall’altra parte la giurisprudenza sempre più consolidata nega la condonabilità di siffatte opere”. Era questo l’effettivo intento del legislatore dal momento che buona parte dell’intero territorio nazionale è sottoposto a vincolo paesaggistico? Può aver inciso sulla pessima scrittura del testo normativo la radicata conflittualità esistente tra Stato ( Governo centrale ) e Regione e una larga area dell’opinione pubblica contraria all’applicazione del beneficio? Come affrontare il futuro con nodi normativi e giurisprudenziali così difficili da districare? I Comuni sono pronti a disinnescare gli effetti del terzo condono, dichiarando, nella stragrande maggioranza dei casi, la inammissibilità delle domande relative a nuove costruzioni, in attuazione dell’indirizzo restrittivo della Suprema Corte, e ad agire di conseguenza ( procedendo alla demolizione delle opere che ne sono oggetto ), dopo che lo Stato ha, comunque, incamerato quanto era nelle sue aspettative e senza che ciò abbia avuto la minima incidenza sui procedimenti penali in corso? Agli stessi l’ ”ardua sentenza”! (Torna all'inizio)

Avv. Bruno Molinaro, Ordine giudiziale di demolizione e riserva amministrativa ai comuni l’accesso al fondo per le demolizioni

24.07.2008 - Ordine giudiziale di demolizione e riserva amministrativa ai comuni l’accesso al fondo per le demolizioni

________________
di Bruno Molinaro
SOMMARIO: 1. LA SENTENZA “BRUNI” DEL 1987 E LA FIGURA DEL GIUDICE “SUPPLENTE”. 2. LA SENTENZA “MONTERISI” DEL 1996 ED IL DEFINITIVO SUPERAMENTO DELLA FIGURA DEL “GIUDICE SUPPLENTE”. 3. NATURA DI SANZIONE AMMINISTRATIVA DELL’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE, SUA EVENTUALE EMENDABILITÀ MEDIANTE LA PROCEDURA DI CORREZIONE DELL’ERRORE MATERIALE E REVOCABILITÀ IN CASO DI INCOMPATIBILITÀ CON ATTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE. 3.1. I CONTRARI INDIRIZZI MINORITARI. 3.2. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO. 3.3. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE, L’AMNISTIA E L’INDULTO. 3.4. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA. 3.5. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E IL DECRETO PENALE DI CONDANNA. 3.6. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA PRESCRIZIONE. 3.7. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA SUA EVENTUALE EMENDABILITÀ MEDIANTE LA PROCEDURA DI CORREZIONE DELL’ERRORE MATERIALE. 3.8. LE CAUSE DI INCOMPATIBILITÀ. 3.8.1. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE, LA DOMANDA DI CONDONO, GLI EFFETTI DELL’OBLAZIONE E IL RILASCIO DELLA CONCESSIONE IN SANATORIA. 3.8.2. GLI EFFETTI DELL’OBLAZIONE. 3.8.3. LO “SPATIUM TEMPORIS” NECESSARIO PER L’ESAME DELLA DOMANDA DI CONDONO. 3.8.4. L’INSUSSISTENZA DI CAUSE DI NON CONDONABILITÀ. 4. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E L’ACQUISIZIONE GRATUITA DELLA “RES ABUSIVA” AL PATRIMONIO COMUNALE. 4.1. L’INTERVENTO DEL CONDANNATO SU “COSA ALTRUI”. 4.2. L’ACQUISIZIONE AL PATRIMONIO COMUNALE E GLI ABUSI REALIZZATI NELLE ZONE VINCOLATE. 5. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA. 5.1. LA POSSIBILE RILEVANZA DEL “FUMUS BONI IURIS” POSITIVAMENTE VALUTATO DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO NELLA FASE INCIDENTALE CAUTELARE. 5.2. IL RICORSO AL GIUDICE AMMINISTRATIVO AVVERSO IL SILENZIO – DINIEGO DELLA CONCESSIONE IN SANATORIA, EX ART. 13 DELLA LEGGE N. 47 DEL 1985, E L’EVENTUALE SOSPENSIONE DELL’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE. 5.3. IL RICORSO AL T.A.R. AVVERSO IL PROVVEDIMENTO DI DEMOLIZIONE “IUSSU IUDICIS” ED IL DIFETTO DI GIURISDIZIONE DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO. 6. L’ESECUZIONE DELL’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E GLI ASPETTI ECONOMICO - FINANZIARI. 6.1. LA LEGITTIMAZIONE AD AGIRE DEL PUBBLICO MINISTERO. 6.2. LA CONTROVERSIA SULLE MODALITÀ DI ESECUZIONE E LA COMPETENZA DEL GIUDICE DELLA ESECUZIONE. 6.3. LA CIRCOLARE MINISTERIALE DEL 29.11.1997 E L’APPLICABILITÀ, IN VIA ANALOGICA, DEGLI ARTT. 612 E 613 C.P.C.. 6.4. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LE OPERE NON COPERTE DAL TITOLO ESECUTIVO. 7. IL RICORSO ALLE STRUTTURE TECNICO – OPERATIVE DEL MINISTERO DELLA DIFESA O ALLE IMPRESE PRIVATE PER LA MATERIALE ESECUZIONE DELL’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE. 7.1. LE NOVITÀ INTRODOTTE DAL D.P.R. DEL 30 MAGGIO 2002, N. 115. 7.2. LA CONVENZIONE INTERMINISTERIALE DEL 15 DICEMBRE 2005. 7.3. IL GIUDIZIO COMPARATIVO SUI COSTI. 7.4. LA COPERTURA FINANZIARIA. 7.5. LE CIRCOLARI DELLA CASSA DEPOSITI E PRESTITI S.P.A. REGOLANTI LA MATERIA. 8. CONCLUSIONI.
* * * * * * *
1. LA SENTENZA “BRUNI” DEL 1987 E LA FIGURA DEL GIUDICE “SUPPLENTE”. Con la sentenza “Bruni” del 10 ottobre 1987, le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che, anche a seguito della modifica dell’art. 165 c.p., introdotta dalla legge n. 689 del 1981, il giudice non può ordinare la demolizione del fabbricato abusivo, seppure quale condizione del beneficio della sospensione condizionale della pena: invero, tale potere è attribuito dall’art. 165 c.p. al giudice <> ed appunto nella materia edilizia la legge dispone altrimenti, perché riserva all’autorità comunale ogni tipo di intervento, compreso il ripristino coattivo dello stato dei luoghi. Rilevarono, inoltre, che “l’art. 7 della legge n. 47 del 1985 ( oggi art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 ), laddove prevede, all’ultimo comma, che il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 17, lett. b), legge 28 gennaio 1977, n. 10, come modificato dall’art. 20 ( legge n. 47 cit. ), ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita”, è norma di chiusura del procedimento amministrativo sanzionatorio, come appare manifesto dalle cadenze degli interventi del sindaco, del presidente della giunta regionale e dell’autorità giudiziaria, sicchè, quando vi sia stata inerzia del sindaco e del presidente della giunta, interviene l’autorità giudiziaria che ordina la demolizione a seguito di condanna. Con tale pronuncia venne, dunque, a delinearsi la figura di un “giudice supplente” dell’autorità amministrativa cui compete istituzionalmente la cura degli interessi urbanistici. La Corte, coerentemente con il principio affermato, precisò che questo intervento dell’autorità giudiziaria, proprio perché di supplenza dell’autorità amministrativa, deve essere coordinato con gli interventi propri di detta autorità e, pertanto, “la demolizione non potrà essere ordinata quando l’opera sia stata acquisita dal Comune che dichiari la sussistenza di prevalenti interessi pubblici, mentre dovrà essere ordinata quando l’opera sia stata acquisita dal Comune e in assenza di detta delibera non sia stata demolita e, a maggior ragione, quando nessun provvedimento sia stato adottato, sia stata, cioè, inerte non solo l’autorità comunale ma anche quella regionale competente a sostituirsi ad essa”. 2. LA SENTENZA “MONTERISI” DEL 1996 ED IL DEFINITIVO SUPERAMENTO DELLA FIGURA DEL “GIUDICE SUPPLENTE”. Nel tempo, la concezione di un giudice supplente, che esercita eventualmente e residualmente un potere ripetuto dalla sfera di attribuzioni proprie della pubblica amministrazione., diretto ad ovviare all’inerzia di quest’ultima, sembrò contraddetta da una più attenta lettura dell’art. 7, comma ult., legge n. 47 del 1985 e dal disegno di legge complessivo del capo I della stessa legge. Con la ormai nota sentenza “Monterisi” del 19 giugno 2006, le Sezioni Unite rivisitarono il precedente orientamento, attribuendo la natura di provvedimento giurisdizionale all’ordine di demolizione ed ammettendo il definitivo superamento della visione di un giudice supplente dell’amministrazione pubblica e, quindi, di garante del rispetto delle regole edilizie da parte dei privati. Riconobbero, in particolare, che: a) il potere conferito al giudice in materia non è omologabile ai poteri di governo del territorio e di controllo delle trasformazioni urbanistiche di spettanza delle regioni, delle province e dei comuni; b) il giudice penale ha solo il potere di ordinare misure a tutela di un interesse correlato a quello di giustizia, a ristoro cioè dell’offesa del territorio e, quindi, di impartire un ordine accessivo alla condanna principale; c) può condividersi la definizione di sanzione amministrativa dell’ordine di demolizione disposto dal giudice penale, sempreché sia chiaro che si tratta non di potere affidato al giudice penale per il soddisfacimento di fini della pubblica amministrazione; d) l’art. 7 non pone alcuna regola di condizionamento o di residualità del potere attribuito al giudice, ma prevede soltanto, per motivi di economicità processuale e di razionalità, che la demolizione dell’opera abusiva, comunque avvenuta, anche per iniziativa del privato, renda non utile l’adozione della misura sanzionatoria; e) il potere – dovere del giudice di ordinare la demolizione dell’opera abusiva deve essere ricompreso in quel complesso meccanismo di deterrenza che per la commissione dell’illecito urbanistico – ad un tempo amministrativo e penale – è stato predisposto dalla legge n. 47 del 1985; f) essendo il titolo esecutivo costituito dalla sentenza irrevocabile, comprensiva dell’ordine di demolizione, l’organo promotore dell’esecuzione va identificato nel pubblico ministero ( ex art. 665 c.p.p. ). Con la sentenza “Grignano” dell’11 gennaio 1993, la stessa Cassazione, Sez. III, anticipando tale ultima conclusione, affermò che, se lo scopo dell’intervento giudiziale è quello di rendere ineludibile “ab externo” la tutela dell’assetto del territorio, attribuire alla P.A., in via esclusiva, il compito di attuare l’ordine di demolizione potrebbe dar luogo ad una “inoffensiva esibizione di muscoli giudiziari (…), visto che l’arma della materiale demolizione rimarrebbe pur sempre nelle mani del Sindaco contro la cui inerzia la misura è, invece, apprestata”. 3. LA NATURA DI SANZIONE AMMINISTRATIVA DELL’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA SUA REVOCABILITÀ IN CASO DI INCOMPATIBILITÀ CON ATTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE. Tutta la giurisprudenza successiva, con orientamento ampiamente consolidato ( si vedano, fra le tante, Cass. Sez. III, 9 agosto 2002 n. 29667, Arrostito; Sez. III, 17 aprile 2002, n. 21406, Cacace; Sez. V, 21 ottobre 1999, n. 12050, Sodini; Sez. III, 18 giugno 1999, n. 2294, Neri; Sez. III, 16 febbraio 1998, n. 4100; Sez. III, 25 ottobre 1997, n. 3107, Di Maro), ha ribadito che l’ordine giudiziale di demolizione è una sanzione amministrativa caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell’organo competente ad emetterla. Si è, in particolare, ritenuto che: <> (Cass., Sez. III, 22 giugno 1994). <> (Cass., Sez. V, 15 luglio 1999, Sodini). <> (Cass. 7 aprile 1989, in Riv. Pen., 1990, 386). <> (Cass., Sez. III, 18 giugno 1999, Neri). 3.1. I CONTRARI INDIRIZZI MINORITARI. In alcune isolate decisioni era stata, in effetti, attribuita all’ordine giudiziale di demolizione natura di pena accessoria ( Cass., SS.UU., 23 settembre 1987, Lofonso; Cass., Sez. III, 20 gennaio 1988; Trib. Roma, 2 dicembre 1987; Pret. Chieti, 22 gennaio 1988; Pret. Sapri, 17 aprile 1988 ) e talvolta anche quella di misura di sicurezza patrimoniale (Cass., Sez. VI, 13 giugno 1991 e Pret. Bari, 7 ottobre 1987). Alla interpretazione secondo cui l’ordine di demolizione ha natura di pena accessoria aveva aderito anche il Consiglio di Stato, Sez. I, con parere del 16 ottobre 1987, n. 1599. A tali indirizzi minoritari sono state opposte, in sintesi, le seguenti obiezioni, in linea con il dettato normativo: a ) – le pene accessorie e le misure di sicurezza debbono ritenersi regolate dal principio di tassatività (artt. 19 e 199 c.p.); b ) – l’ordine di demolizione si caratterizza per la sua “accidentalità” ( dovendo essere impartito se la demolizione “… ancora non sia stata altrimenti eseguita” ), carattere che risulta inconciliabile con quello dell’indefettibilità rispetto alla condanna propria delle pene accessorie ( che conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa, ex art. 20 c.p. ); c) la sanzione demolitoria non “incide” direttamente sulla “persona”, mentre tale “incidenza” costituisce connotato “normale” di tutte le pene accessorie, che “incidono” sullo status del condannato, comportando una limitazione della sua sfera giuridica, ma non aggrediscono il suo patrimonio. 3.2. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO. L’ordine di demolizione va emesso anche in caso di sentenza applicativa di pena concordata ex art. 444 c.p.p. ( c.d. patteggiamento ), in quanto: a) la decisione pronunziata sull’accordo delle parti è equiparata alla sentenza di condanna ( cfr. Cass., SS.UU., 27 maggio 1998, Basio; 25 marzo 1998, Giangrasso; 28 maggio 1997, Lisuzzo; 27 marzo 1992, Di Benedetto ); b ) – l’ordine di demolizione, per la sua natura di sanzione amministrativa, costituisce atto dovuto, sempre che vi sia stata inerzia della pubblica amministrazione, non essendo riconducibile al regime pattizio e non ostandovi, altresì, il disposto di cui all’art. 445, 1° comma, c.p.p., che vieta, tra l’altro, l’applicazione, con la sentenza pronunciata sull’accordo delle parti, di pene accessorie e di misure di sicurezza ( cfr., in tal senso, ex plurimis, Cass., Sez. III, 3 luglio 2000, Pusateri; 18 febbraio 1998, n. 64, Corrado; 28 ottobre 1997, n. 2207, Del Prete ). E’ stato, inoltre, affermato che “l’ordine di demolizione della costruzione abusiva previsto dall’art. 7, ultimo comma della legge 28 febbraio 1985, n. 47, avendo natura di sanzione amministrativa la cui applicazione è eccezionalmente demandata ( ove non abbia già provveduto l’autorità amministrativa ) al giudice penale, e non essendo, quindi, qualificabile come sanzione penale accessoria o come effetto della condanna, resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all’art. 445, 2° comma, c.p.p.” ( Cass., Sez. III, 12 gennaio 2000, Giusta, e 6 luglio 2000, Callea ). 3.3. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE, L’AMNISTIA E L’INDULTO. Non essendo una sanzione penale, l’ordine giudiziale di demolizione non può essere revocato in conseguenza dell’applicazione degli istituti dell’amnistia e dell’indulto ( Cass., Sez. III, 1 aprile 1994, Galotta, e 30 agosto 1990, n. 14665, Di Gennaro ). 3.4. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA. La sospensione condizionale della pena, estendendo i propri effetti solo alle pene accessorie, non è applicabile all’ordine di demolizione, che ha natura di sanzione amministrativa ( Cass., Sez. III, 18 giugno 1999, Neri ). 3.5. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E IL DECRETO PENALE DI CONDANNA. L’ordine giudiziale di demolizione va adottato anche con il decreto penale di condanna e in tal senso il giudice deve provvedere anche d’ufficio e, quindi, a prescindere da una specifica istanza del P.M. nella richiesta di decreto penale (Cass., Sez. III, 19 giugno 2007, n. 32287, G.). 3.6. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA PRESCRIZIONE. L’estinzione per prescrizione del reato di costruzione abusiva per difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire non consente al giudice l’emanazione, ex art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, dell’ordine di demolizione del manufatto, atteso che lo stesso ha natura di sanzione amministrativa di tipo ablatorio catalogabile tra i provvedimenti giurisdizionali esclusivamente per la sua accessorietà ad una sentenza di condanna (Cass., Sez. III, 18 ottobre 2005, n. 44245; negli stessi sensi, Cass., Sez. III, 12 dicembre 2003, n. 3991; Cass. Sez. III, 3 febbraio 2004, n. 3991; Cass. Sez. III, 12 dicembre 2006, n. 40438; Cass. Sez. III, 2 febbraio 2006, n. 10209; Cass. Sez. III, 28 febbraio 2007, n. 8409). 3.7. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA SUA EVENTUALE EMENDABILITÀ MEDIANTE LA PROCEDURA DI CORREZIONE DELL’ERRORE MATERIALE. Con una recente decisione del 13 dicembre 2007, n. 4751, la Corte di Cassazione, Sez. III, ha escluso la possibilità di ricorrere al rimedio della correzione dell’errore materiale allorquando il giudice penale non abbia, per una qualsiasi ragione, ordinato la demolizione dell’opera abusiva contestualmente alla sentenza di condanna. La Corte ha così motivato sul punto: <> la non ottemperanza all’ordine di demolizione, qualora si sia in costanza di una legittima procedura volta alla sanatoria dell’abuso e della successiva emanazione del relativo provvedimento da parte del Comune” ( così, testualmente, Cass. pen., III sez., n. 21889/07, Conte, CC. 11.5.2007, dep. 8.6.2007). Ed ancora: “In tema di reati edilizi, ai fini della revoca o sospensione dell’ordine di demolizione delle opere abusive (art.7, ultimo comma, della L. 28 febbraio 1985, n. 47, oggi previsto dall’art. 31, comma nono, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) in presenza di una istanza di condono o di sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il giudice dell’esecuzione investito delle questione è tenuto ad una attenta disamina dei possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura ed, in particolare: a) ad accertare il possibile risultato dell’istanza e se esistono cause ostative al suo accoglimento; b) nel caso di insussistenza di tali cause, a valutare i tempi di definizione del procedimento amministrativo e sospendere l’esecuzione in prospettiva di un rapido esaurimento dello stesso” (Cass. pen., Sez. III, n. 38997, CC. 26.9.2007, dep. 23.10.2007, Di Somma). Nella motivazione di tale ultima decisione, la Corte di Cassazione ha ritenuto che “in epoca successiva alla sentenza di condanna, la Pubblica Amministrazione è libera di agire e di portare a termine il suo procedimento e tale attività non può essere ignorata, ove l’esecuzione dell’ordine deve essere coordinata con le determinazioni prese in sede amministrativa. Pertanto, la sanzione in esame sfugge alla regola del giudicato ed è riesaminabile nella fase esecutiva, nella quale può subire modificazioni e, per incompatibilità con provvedimenti susseguenti della Pubblica Amministrazione, può ritenersi inutiliter data. Sul punto, la giurisprudenza di questa Corte è concorde nel ritenere che il giudice della esecuzione debba revocare l’ordine di demolizione se nuovi atti amministrativi si pongano in contrasto con lo stesso, oppure lo debba sospendere quando sia ragionevolmente prospettabile che, nell’arco di brevissimo tempo, la Pubblica Amministrazione adotterà un provvedimento incompatibile con l’abbattimento dell’opera (…) senza rinviare a tempo indefinito la tutela degli interessi urbanistici che l’ordine di demolizione mira a reintegrare. Questi principi cercano di salvaguardare, in un armonico equilibrio, due interessi meritevoli di tutela: quello pubblico alla rapida riparazione del bene violato e quello del privato ad evitare un danno irreparabile, in pendenza di una situazione giuridica che potrebbe risolversi a suo favore (ex plurimis, Cass. pen., III sez., 43878/2004). In tale contesto, il Giudice della esecuzione è chiamato ad una attenta disamina dei possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura di sanatoria: - accertare il possibile risultato della richiesta sanatoria e se esistano cause ostative alla sua concessione; - nel caso di insussistenza di tali cause, valutare i tempi di definizione del procedimento amministrativo e sospendere l’esecuzione .. in prospettiva di un rapido esaurimento dello stesso”. 3.8.3. LO “SPATIUM TEMPORIS” NECESSARIO PER L’ESAME DELLA DOMANDA DI CONDONO. Come già accennato in precedenza, la semplice presentazione della domanda di condono può giustificare la sospensione della esecuzione dell’ordine di demolizione solo quando “sia razionalmente e concretamente prevedibile che, nel giro di brevissimo tempo, sia adottato dall’autorità amministrativa o giurisdizionale un valido provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con il detto ordine di demolizione, restando escluso che, a tal fine, sia sufficiente la semplice pendenza della procedura di sanatoria o la mera presentazione della domanda di condono edilizio, sia pure accompagnata dal versamento della congrua somma dovuta a titolo di oblazione” ( Sez. III, 30 marzo 2000, Ciaravella; Sez. III, 26 maggio 2004, Cena; Sez. III, 28 settembre 2006, Mariani; Sez. III, 22 febbraio 2007, Faralla ). Ciò anche tenendo presente che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sentenza del 24 maggio 2007, ha ritenuto che <>. Il ricorrente, proprietario limitrofo danneggiato dall’opera abusiva per la quale era stata in seguito presentata domanda alla Corte, aveva, appunto, lamentato la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1, in relazione alla mancata attuazione da parte delle autorità italiane di un ordine giudiziale di demolizione emesso dal giudice penale e delegato al sindaco per la esecuzione. La Corte ha ritenuto illegittimo il comportamento del comune inadempiente sul rilievo che erano trascorsi inutilmente più di dodici anni senza che le autorità municipali si fossero pronunciate al riguardo e sebbene il sindaco avesse comunicato che la richiesta di sanatoria non poteva essere accolta tenuto conto della legislazione vigente in materia. Con tale pronuncia la Corte ha anche condannato l’Italia ( che aveva resistito in giudizio, deducendo, fra l’altro, “l’assenza di un diritto individuale del richiedente alla demolizione” ed assumendo, altresì, che “l’ordine di demolizione non costituisce una misura di cui la messa in esecuzione è un dovere inevitabile per i suoi destinatari, siccome l’amministrazione può, in certe condizioni, previste dalla legge, soprassedere dalla sua esecuzione e persino ignorarla” ) al risarcimento del danno morale e al pagamento. In ordine ai tempi occorrenti per la definizione del procedimento di sanatoria, che anche per la Suprema Corte – lo si ripete - debbono essere brevi e non dilatabili oltre ogni limite di ragionevolezza, non può sfuggire che tali tempi sono scanditi con precisione dalla legge statale n. 326 del 2003 ( come integrata dalla legge 27.12.2004, n. 304, di conversione del d.l. n. 282 del 2004 ) e, per quanto riguarda la Campania, dalla legge regionale n. 10 del 18.11.2004 ( in una parte immune dalla pronunzia di illegittimità costituzionale del giudice delle Leggi ): tempi che influiscono, all’evidenza, anche sulla attivazione e definizione del sub – procedimento relativo al parere di compatibilità paesaggistica per le opere realizzate in zone assoggettate a vincolo di tutela. Il legislatore nazionale ed il legislatore regionale hanno previsto, per l’esame complessivo della domanda di sanatoria un termine ultimo per la presentazione della domanda (10.12.2004), un termine per il versamento dei residui oneri concessori (24 mesi dall’istanza), uno per il pagamento della seconda rata dell’oblazione (31 maggio 2005), altro per il pagamento della terza rata dell’oblazione (30 settembre 2005), altro, ancora, per il deposito degli ulteriori documenti richiesti (31 ottobre 2005): da tale ultima data, maturano, infine, ulteriori effetti ai sensi del comma 36 dell’art. 32 legge n. 326 del 2003. Alla scadenza del termine complessivo per la definizione del procedimento principale scatta l’intervento sostitutivo dell’amministrazione provinciale secondo la procedura fissata dall’art. 4 della legge regionale della Campania n. 19 del 2001. È evidente che il termine risponde ad una esigenza di efficienza e funzionalità degli uffici, avendo il legislatore previsto (come in effetti è avvenuto) l’inoltro di un numero rilevante di domande ed avendo la stessa legge stabilito la priorità delle domande di sanatoria edilizia presentate ai sensi delle legislazioni condonistiche precedenti. In questo ambito, la novella dell’art. 32 della legge 47 del 1985 è particolarmente significativa. Ne consegue quindi che pure il parere paesaggistico è tutto inscritto, quale segmento sub-procedimentale, nell’ambito del procedimento principale di sanatoria; si tratta di parere da acquisire, come meglio si vedrà in seguito, in forma espressa, avendo valore preclusivo solo ove l’autorità competente al vincolo escluda la sanabilità dell’opera. Gli esiti di tale sub-procedimento sono costituiti o dal rilascio del titolo abilitativo in sanatoria sulla base della espressa compatibilità paesistica, ovvero, ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990 (introdotto dalla legge n. 15 del 2005), dalla comunicazione del parere negativo della autorità competente alla tutela del vincolo. Decorso il termine di 240 giorni, assegnato complessivamente per la definizione della pratica di condono, si forma il silenzio-diniego che può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali difetti di procedura e, tanto meno, mancanza di motivazione ( così T.A.R. Campania – Napoli, Sez. VI, 22 maggio 2006, n. 8046 ). Nello stesso senso, d’altra parte, si è pronunciato il Supremo Consesso della Giustizia amministrativa, affermando che “il silenzio dell’Amministrazione a fronte di un’istanza di sanatoria costituisce una ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono pertanto collegati gli effetti di un provvedimento di rigetto dell’istanza, così determinandosi una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di provvedimento espresso; ne consegue che tale provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione – tant’è che l’art. 13 della legge n. 47/1985 attribuisce al silenzio serbato dalla P.A. il valore di diniego vero e proprio - ed è impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per il contenuto reiettivo dell’atto” (C.d.S., Sez.V, 11 febbraio 2003, n.706, nonchè C.G.A.R.S., 21 marzo 2001, n.142). Tale ipotesi di silenzio – diniego è, tuttavia, venuta meno almeno in Campania, in quanto l’art. 7 della richiamata legge regionale n. 10 del 2004 prevede espressamente che: “Le domande di sanatoria sono definite dai Comuni competenti con provvedimento esplicito da adottarsi entro ventiquattro mesi dalla presentazione delle stesse. Il termine può essere interrotto una sola volta se il Comune richiede all’interessato integrazioni documentali e decorre per intero dalla data di presentazione della documentazione integrativa. Decorso il termine di cui al comma 1, si applicano le disposizioni di cui alla legge regionale 28 novembre 2001, n. 19, articolo 4, che disciplinano l’esercizio dell’intervento sostitutivo da parte dell’amministrazione provinciale competente”. 3.8.4. L’INSUSSISTENZA DI CAUSE DI NON CONDONABILITÀ. Una breve riflessione si impone in ordine all’obbligo – per il giudice dell’esecuzione di accertare, fra le altre condizioni richieste, al fine di pronunciarsi sulla sospensione dell’esecuzione stessa ( a seguito dell’avvenuta presentazione della domanda di condono edilizio ex art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 ), quella della “insussistenza di cause di non condonabilità”, come si verifica, ad es., nel caso in cui dagli atti emerga verosimilmente la violazione, da parte del contravventore, dei limiti temporali e volumetrici nella esecuzione delle opere. Per quanto attiene alle aree sottoposte a vincolo, sempre che non si tratti di vincolo di inedificabilità assoluta, come chiarito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 49 del 2006, le opere saranno sanabili solo laddove si dimostri la conformità delle stesse alla normativa urbanistica ( comma 27, lett. d, art. 32 cit. ), previo parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, come disciplinato dal nuovo testo dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985, nella formulazione introdotta dal comma 43 del decreto – legge n. 269 del 2003, che prevede una conferenza di servizi cui partecipa necessariamente anche la soprintendenza territorialmente competente, il cui parere è vincolante. 4. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E L’ACQUISIZIONE GRATUITA DELLA “RES ABUSIVA” AL PATRIMONIO COMUNALE. Secondo l’orientamento prevalente della Suprema Corte, l’acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio indisponibile del comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal giudice penale ed eseguito dal pubblico ministero, potendosi ravvisare un'ipotesi di incompatibilità soltanto se la deliberazione consiliare abbia statuito di non dover demolire l'opera acquisita ravvisando l'esistenza di prevalenti interessi pubblici alla sua conservazione (ex plurimis, Cass., Sez. III, n. 37120 dell’8 luglio 2003; n. 26149 del 9 giugno 2005; n. 37120 dell’11 maggio 2005). Con la sentenza n. 37120 del 2005, da ultimo richiamata, sono stati affermati, in particolare, i seguenti principi: 1. L'ordine di demolizione impartito dal giudice penale ai sensi dell'art. 7, ultimo comma, della legge n. 47/1985 (attualmente previsto dell'art. 31, ultimo comma, del T.U. n. 380/2001), assolvendo ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, ha natura di provvedimento accessorio rispetto alla condanna principale e costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio, non residuale o sostitutivo ma autonomo rispetto a quelli dell'autorità amministrativa, attribuito dalla legge al giudice penale (cfr., Cass., Sez. Unite, 24.7.1996, n. 15, ric. PM in proc. Monterisi). 2. L'acquisizione gratuita, in via amministrativa, è finalizzata essenzialmente alla demolizione, per cui non si ravvisa alcun contrasto con l'ordine demolitorio impartito dal giudice penale, che persegue lo stesso obiettivo: il destinatario di tale ordine, a fronte dell'ingiunzione del P.M., allorquando sia intervenuta l'acquisizione amministrativa a suo danno, non potrà ottemperare all'ingiunzione medesima ove il Consiglio Comunale abbia già ravvisato (ovvero sia sul punto di deliberare) l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive. Ove il Consiglio comunale non abbia deliberato il mantenimento dell'opera, il procedimento sanzionatorio amministrativo (per le opere realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali) ha come sbocco unico ed obbligato la demolizione a spese del responsabile dell'abuso. 3. Nella fase di esecuzione dovranno risolversi le questioni riguardanti i rapporti con i provvedimenti concorrenti della pubblica amministrazione e potrà disporsi la revoca dell'ordine di demolizione (statuizione sanzionatoria giurisdizionale, che, avendo natura amministrativa, non è suscettibile di passare in giudicato) che risulti non compatibile con situazioni di fatto o giuridiche sopravvenute, quali atti amministrativi della competente autorità, che abbia conferito all'immobile altra destinazione o abbia provveduto alla sua sanatoria. 4. Tale incompatibilità, come già detto, oltre che assoluta, deve essere già esistente ed insanabile e non invece futura e meramente eventuale (Cass., Sez. III, 17 dicembre 2001, Musumeci; 30 marzo 2000, Ciconte; 14 febbraio 2000, Cucinella; 4 febbraio 2000, Le Grottaglie; 7 marzo 1994, Iannelli, e 7 marzo 1994, Acquafredda). In dettaglio si è precisato ( Cass., Sez. III, 29 settembre 2005, n. 43294) che: “Il trasferimento al patrimonio comunale della proprietà dell'immobile abusivo, dell'area di sedime e dell'area di pertinenza urbanistica si verifica ope legis alla scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione sindacale di demolire (a differenza che nella disciplina previgente); cosicché l'atto di accertamento della inottemperanza colpevole e la trascrizione nei registri immobiliari hanno natura semplicemente dichiarativa (cfr. la giurisprudenza prevalente ed in particolare Cass. Sez. III n. 3755 del 29 dicembre 2000, Mereu, rv. 218004; Cass. Sez. III, n. 33297 del 6 agosto 2003, P.G. in proc. Brullo, rv. 226155); - più esattamente, l'accertamento dell'inottemperanza, regolarmente notificato all'interessato, è titolo per l'immissione del comune nel possesso ed è necessario per opporre il trasferimento al proprietario responsabile dell'abuso; mentre la trascrizione nei registri immobiliari è invece necessaria per opporre il trasferimento ai terzi ex art. 2644 cod. civ. (cfr. sentenza Brullo citata); - ne deriva che soltanto con la concreta presa di possesso dell'immobile da parte dell'autorità comunale il responsabile dell'abuso è privato della possibilità materiale di ottemperare all'ordine di demolizione; - tuttavia anche l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale e l'immissione del comune nel possesso dell'immobile sono indubbiamente finalizzate all'obiettivo della demolizione, sicché non sono affatto incompatibili con l'esecuzione dell'ordine di demolizione emanato dal giudice. Unica eccezione all'esito demolitorio è - si ripete - la delibera del consiglio comunale che decida la conservazione delle opere abusive, ravvisando l'esistenza di interessi pubblici prevalenti su quelli urbanistici o ambientali; - prima di questa delibera consiliare, quindi, i due procedimenti sanzionatori, quello attivato dall'autorità comunale e quello attivato dall'autorità giudiziaria" sono non soltanto compatibili ma addirittura convergenti. Sicché "non si comprende perché il condannato non possa chiedere al Comune (divenuto nel frattempo proprietario) l'autorizzazione a procedere ad una ineludibile demolizione a propria cura e spese, ovvero perché, indipendentemente dalla proposizione o dalla sorte di una richiesta siffatta, l'autorità giudiziaria non possa provvedere a quella demolizione che autonomamente ha disposto, a spese del condannato, restando comunque costui spogliato della proprietà dell'area già acquisita al patrimonio disponibile comunale e con l'ulteriore conseguenza che i materiali risultanti dall'attività demolitoria (es. porte, impianti igienici, infissi, serrande etc.) spetteranno al Comune" (così Cass., Sez. III, n. 641 dell’11.5.2005, Morelli). Accedendo alla tesi contraria, secondo cui l'acquisizione dell'immobile abusivo al patrimonio comunale impedirebbe l'esecuzione dell'ordine di demolizione impartito dal giudice, si arriverebbe alla inaccettabile vanificazione, o alla fraudolenta elusione, dello spirito e della portata normativa della disciplina voluta dal legislatore del 1985, perché il procedimento giurisdizionale, pensato per completare e rafforzare l'apparato sanzionatorio, tradizionalmente affidato al procedimento amministrativo, finirebbe per essere ostacolato proprio dallo svolgimento di quest'ultimo. Per queste ragioni, nonostante qualche pronuncia contraria (Sez. III n. 141 dell'11 gennaio 1997, Vitantonio, rv. 206556, Sez. III n. 22743 del 12 maggio 2004, Maffongelli, rv. 228721), si deve concludere che in caso di condanna per opere edilizie eseguite in assenza di concessione (ora permesso di costruire), in totale difformità o con variazioni essenziali, l'ordine giudiziale di demolizione delle opere stesse, di cui all'art. 7, ult. comma, legge 47/1985 e ora all'art. 31, comma 9, d.P.R. 380/2001, deve essere sempre emanato e mantenuto, a meno che non risulti a) che la demolizione sia già avvenuta, b) che l'abuso sia stato sanato sotto il profilo urbanistico, c) che il consiglio comunale territorialmente competente abbia deliberato che le opere devono essere conservate in funzione di interessi pubblici ritenuti prevalenti sugli interessi urbanistici (in tali sensi, cfr., ex plurimis, anche Sez. III, n. 7571 del 27 giugno 1992, Raho, Sez. III n. 6169 del 26 maggio 1994, Di Guardo; Sez. III n. 3489 del 29 dicembre 2000, P.M. in proc. Mosca, rv. 217999)”. 4.1. L’intervento del condannato su “cosa altrui”. Si pone, a questo punto, il problema di stabilire se, una volta esauritasi la procedura ablatoria in conseguenza dell’avvenuta acquisizione del bene al patrimonio comunale, il condannato sia o meno nella impossibilità di eseguire l’ordine giudiziale di demolizione. Secondo Cass., Sez. III, n. 1904 del 23 gennaio 2007, “dopo l’acquisizione del bene al patrimonio comunale, viene di regola meno per il condannato l’interesse a sospendere o paralizzare l’esecuzione dell’ordine di demolizione in quanto, nel frattempo, è il Comune ad essere divenuto proprietario del bene “( negli stessi sensi, cfr. Cass., Sez. III, 15 aprile 2004, n. 22743 ). Tale conclusione è in linea, peraltro, con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo cui: “L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, prevista dall’art. 7, 3° comma, l. 28 febbraio 1985, n. 47, è atto dovuto, senza alcun contenuto discrezionale, ed è subordinato unicamente all’accertamento della inottemperanza e del decorso del termine di legge ( novanta giorni ) fissato per la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi; pertanto, la tardiva demolizione di un’opera abusiva rispetto al termine suddetto va considerata illegittima, oltre che illecita, in quanto non solo riguarda un bene non più proprio ma esclude anche la possibilità da parte dell’amministrazione di utilizzare l’opera in presenza dei presupposti richiesti dalla legge” ( Cons. Stato, Sez. V, 18 dicembre 2002, n. 7030; 26 gennaio 2000, n. 341, e 23 gennaio 1991, n. 66 ). “Nel sistema delineato dall’art. 7 l. 28 febbraio 1985, n. 47, l’inottemperanza all’ordine di demolire determina allo scadere del termine l’effetto acquisitivo automatico del bene, rispetto al quale il provvedimento sindacale di acquisizione ha carattere meramente dichiarativo: è, pertanto, irrilevante – e può addirittura configurare una responsabilità per intervento su cosa altrui – la eventuale ottemperanza alla diffida a demolire nelle more tra la scadenza del termine e la dichiarazione di acquisizione” ( T.A.R. Lombardia, Sez. II, 26 ottobre 1991, n. 66 ). Per concludere sull’argomento ( e richiamando, sul punto, B. Delfino, L’ordine di demolizione impartito dal giudice penale, in Riv. Giur. Edilizia 1998, n. 197 ), va ricordata la disposizione contenuta nella legge 14 ottobre 1993 della Regione Sicilia, per la quale è possibile concedere il diritto di abitazione sul bene acquisito al patrimonio comunale allorquando l’immobile risulti adibito a “dimora abituale e principale del responsabile dell’abuso e del suo nucleo familiare, anche di fatto”. Tale normativa ha beneficiato di un favorevole scrutinio di legittimità ad opera della Corte Costituzionale, che ha qualificato l’atto costitutivo del diritto reale di abitazione come un provvedimento discrezionale tanto in riferimento all’”an” che al “quid”, sottolineando, altresì, che l’art. 4, comma 2, della predetta legge “contiene un bilanciamento non irrazionale tra l’esigenza di disciplinare il grave problema dell’abusivimo edilizio e l’esigenza ( di rilievo anche costituzionale: v. sent. n. 49 del 1987 ) di assicurare un’abitazione ai bisognosi” ( Corte Costituzionale, 5 maggio 1994, n. 169 ). 4.2. L’ACQUISIZIONE AL PATRIMONIO COMUNALE E GLI ABUSI REALIZZATI NELLE ZONE VINCOLATE. Quanto detto in tema di acquisizione non vale ovviamente per le opere iniziate ed eseguite senza titolo in zone assoggettate a vincoli di tutela ( rectius: di inedificabilità ). Per queste ultime, infatti, trova applicazione l’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale stabilisce che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale “provvede (in tali casi) alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi”. E’ evidente che, per gli abusi commessi in aree meritevoli di una particolare e rafforzata tutela, il legislatore ha inteso attribuire all’amministrazione il potere – dovere di ripristinare senza indugio la legalità violata, senza, peraltro, distinguere in relazione alla natura assoluta o relativa del vincolo ( cfr, T.A.R. Campania – Napoli, Sez. IV, 12 aprile 2005, n. 3780 ). In dette aree non può, dunque, trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 31 dello stesso d.P.R., che prevede, come è noto, una più complessa sequela procedimentale. Tale ultima disposizione potrà, anche nelle aree vincolate, essere applicata nei soli casi in cui siano state accertate opere edilizie eseguite in totale difformità da un permesso di costruire, ovvero con variazioni essenziali, ma non anche allorquando non risulti rilasciato alcun titolo preventivo. 5. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA. Anche tale problematica risente dell’incerto confine tra l’ambito applicativo dell’esercizio del potere sanzionatorio spettante alla pubblica amministrazione e quello proprio dell’ordine di demolizione impartito dal giudice penale. Se, infatti, da un lato si sostiene che l’ordine di demolizione deve considerarsi emanazione di un potere dispositivo autonomo, spettante per legge all’autorità giurisdizionale, rispetto a quello analogo e simmetrico dell’autorità amministrativa, dall’altro si riconosce, come già detto, che la sanzione in esame sfugge alla regola del giudicato ed è riesaminabile in fase esecutiva, nella quale può subire modifiche sino a ritenersi caducata per effetto di sopravvenuti provvedimenti dell’autorità amministrativa che si pongono, rispetto ad esso, in una situazione di incompatibilità. In base a tale ultimo orientamento assumono rilevanza, più o meno significativa, i “dicta” del giudice amministrativo perché è evidente che non può esservi inerzia della pubblica amministrazione laddove è la sua stessa “potestà” ad essere temporaneamente paralizzata nel suo esercizio, per effetto di un’eventuale sospensiva dell’efficacia del provvedimento, o caducata in conseguenza di una pronuncia di annullamento, nel merito, del provvedimento medesimo. Secondo i fautori della tesi – ormai superata – per la quale il potere del giudice penale di ordinare la demolizione avrebbe carattere di supplenza per ovviare all’inerzia della P.A., “l’ordine del supplente ( giudice penale ) non ha possibilità di attuarsi, poiché l’esercizio del potere del titolare (p.a.), cui è demandato di procedere all’esecuzione dell’ordine di demolizione, è sospeso: non è ( in tal caso ) l’ordine del giudice ad essere oggetto della sospensione ma la potestà stessa dell’amministrazione ad essere temporaneamente paralizzata nel suo esercizio” ( Cass., Sez. III, 12 novembre 1992, Vanello ). I fautori della tesi opposta ( c.d. “dominante” ) sostengono che poiché l’ordine di demolizione ex art. 31 d.p.r. n. 380 del 2001 è attribuito al giudice autonomamente e non in via di supplenza rispetto al corrispondente potere dell’autorità comunale, “la contestuale emanazione di un ordine di demolizione da parte di quest’ultima non provoca evidentemente alcuna incompatibilità tra i due provvedimenti e, per converso, la sospensiva ad opera del T.A.R. dell’ordine del Comune non determina automaticamente la sospensione dell’ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna” ( Cass., Sez. III, 28 aprile 1999, n. 10747 ). Parallelamente, l’esercizio da parte dell’autorità comunale del potere di demolizione è censurabile ad opera del giudice amministrativo ma non dal giudice ordinario, anche se questi con la sentenza di condanna ha emesso analogo provvedimento ( Cass., Sez. III, 12 luglio 1997, n. 2169 ). Tale orientamento appare, per un verso, coerente con l’affermazione di principio secondo cui il giudice penale è titolare di un potere autonomo e non di mera supplenza, residuale o surrogatorio rispetto a quello esercitato dal Comune, sicchè – da tale angolazione – l’eventuale sospensiva del giudice amministrativo è del tutto irrilevante, in quanto pur sempre riferita ad attività provvedimentale riconducibile alla paternità e responsabilità dell’ente territoriale, per altro verso appare viziato da aporia logica, laddove denuncia l’esigenza di un coordinamento ( e velatamente i rischi che il mancato coordinamento comporta ) tra l’attività della p.a. e quella dell’a.g.o. e tra quest’ultima e quella del giudice amministrativo. Tale esigenza di coordinamento “non esige e non si realizza al livello del processo di cognizione, seguendo il criterio della pregiudizialità del provvedimento amministrativo, ma nel momento terminale delle due procedure, allorquando la reciproca interferenza dei provvedimenti amministrativo e giurisdizionale effettivamente si verifica, e si risolve mediante la ricerca da parte del giudice penale del coordinamento con il più ampio governo del territorio assegnato dalla legge all’amministrazione in vista della comune finalità” ( Cass., Sez. III, 28 aprile 1999, n. 10747 ). 5.1. LA POSSIBILE RILEVANZA DEL “FUMUS BONI IURIS” POSITIVAMENTE VALUTATO DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO NELLA FASE INCIDENTALE CAUTELARE. In presenza di una sospensiva del giudice amministrativo il giudice penale deve pur sempre verificare preliminarmente se l’ordine di demolizione da emettere sia o meno correttamente compatibile con il suo provvedimento, atteso che “solo l’intervenuta sospensiva concessa con riferimento al fumus boni iuris di possibili vizi relativi a violazioni sostanziali della normativa urbanistica, non riparabili in sede di autotutela dall’autorità amministrativa, è da ritenersi influente, mentre, se il provvedimento cautelare trova la sua giustificazione in vizi meramente formali, esso non è incompatibile con l’ordine di demolizione posto in essere dal giudice per la reintegrazione dell’interesse urbanistico sostanziale” (Cass., Sez. III, 20 giugno 1996, n. 2702). “Anche la provvisoria sospensione disposta dal T.A.R. è, di regola, ininfluente a meno che non sia stata motivata con l’esistenza del c.d. “fumus” di vizi relativi a violazioni sostanziali della normativa urbanistica. La sospensione si prospetta irrilevante se concessa per ragioni non comportanti un preliminare giudizio di disvalore dell’atto amministrativo” ( Cass., Sez. III, 16 marzo 2004, n. 23992 ). La cautela che ispira l’orientamento dei giudici di legittimità in materia scaturisce probabilmente dalla consapevolezza che, sia pure nella sede esecutiva e non anche in quella di cognizione, non appare conforme a legge ignorare del tutto le statuizioni anche cautelari ( nonostante qualche “distinguo” in relazione al tipo di delibazione sul “fumus”) del giudice amministrativo. Precisa la Corte in fattispecie relativa ad un contrasto su tematiche edilizie dibattute con esiti contrastanti in sede penale ed in sede giurisdizionale amministrativa che “non vale accampare a questo riguardo la autonomia decisionale del giudice penale rispetto al giudice amministrativo. Questa autonomia è incontestabile ed appare esattamente confermata dal sistema normativo risultante dagli artt. 2 e 3 c.p.p.. Ma implica anche la posizione reciproca, cioè l’autonomia decisionale dei giudici amministrativi rispetto ai giudici ordinari ( salva ovviamente la funzione regolatrice della Corte di Cassazione per le questioni attinenti alla giurisdizione ex art. 111, ult. comma, Cost. ). Ed è propria questa autonomia della giurisdizione amministrativa che deve “impedire non solo di ritenere macroscopicamente illegittima una sentenza del T.A.R. coperta da giudicato, ma soprattutto di escludere il legittimo e incolpevole affidamento dell’interessato in questa sentenza. Escludere questa buona fede, e quindi ritenere l’astratta configurabilità oggettiva e soggettiva del reato di lavori senza concessione amministrativa equivale a negare al cittadino la possibilità di tutelare per via giurisdizionale i suoi diritti ed interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione. In altri termini, anche a voler condividere la tesi che esclude la buona fede dell’agente davanti a un atto amministrativo “macroscopicamente illegittimo” ( ma ci sono molte ragioni per non condividerla, considerata la indeterminatezza del concetto di macroscopicità, che confligge col principio di legalità e tassatività dei reati ), sicuramente questa tesi non sarebbe applicabile davanti a una sentenza del giudice amministrativo, passata in giudicato: sia perché l’a.g.o. non può arrogarsi il potere di valutare la conformità a legge – macroscopica o meno – di un arret di un’altra giurisdizione, sia perché il cittadino – pena la vanificazione del suoi diritti civili – non può essere privato dalla facoltà di fare affidamento sugli strumenti della tutela giurisdizionale posti a sua disposizione dall’ordinamento” ( Cass., Sez. III, 11.1.1996, n. 54, Ciaburri ). 5.2. IL RICORSO AL GIUDICE AMMINISTRATIVO AVVERSO IL SILENZIO – DINIEGO DELLA CONCESSIONE IN SANATORIA, EX ART. 13 DELLA LEGGE N. 47 DEL 1985, E L’EVENTUALE SOSPENSIONE DELL’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE. Sempre in sede di giurisdizione nomofilattica è stato affermato che, nel caso di ricorso giurisdizionale contro il diniego della concessione edilizia in sanatoria di cui all'art. 13 legge n. 47 del 1985 ( ora art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 ), “deve trovare applicazione il secondo comma del successivo art. 22, secondo cui l'udienza viene fissata d'ufficio dal presidente del tribunale amministrativo regionale per una data compresa entro il terzo mese dalla presentazione del ricorso. Deve quindi ritenersi che, decorsi tre mesi dalla presentazione del ricorso senza che l'udienza si sia già tenuta e, comunque, senza che l'interessato ne abbia sollecitato la fissazione, la mera pendenza del detto ricorso giurisdizionale non può costituire causa di sospensione dell'esecuzione dell'ordine di demolizione disposto dal giudice penale. Certamente non può ravvisarsi una ipotesi di sospensione in un caso in cui l'udienza non sia stata ancora fissata dopo ben tre anni e mezzo dalla presentazione del ricorso” ( così Cass., Sez. III, 30 marzo 2000, n. 1388 ). Giova ricordare, in proposito, che la Corte Costituzionale, con decisione del 1° aprile 1998, n. 85, ha dichiarato infondata, con riferimento all'art. 3 Cost., la questione di legittimità della l. n. 724 del 1994, art. 39, comma 9, nella parte in cui non prevede la sospensione dell'azione penale in pendenza dell'impugnazione giurisdizionale del provvedimento di diniego sulla richiesta di condono edilizio e di autorizzazione paesaggistica per opere abusive in zona sottoposta a vincolo. Per interventi abusivi siffatti l'effetto del condono -sanatoria si verifica solo quando l'autorità preposta al vincolo, mediante una valutazione di compatibilità con le esigenze sostanziali di tutela, abbia ritenuto l'opera già eseguita suscettibile di conseguire l'autorizzazione in sanatoria e l'autorità comunale abbia rilasciato la concessione edilizia sanante. In tal caso, in cui gli effetti dell'oblazione-condono e della sanatoria debbono necessariamente coincidere, la Consulta ha rilevato che non è prevista una specifica sospensione del procedimento penale qualora la domanda di sanatoria abbia avuto esito negativo in via amministrativa e sia sorta contestazione avanti al giudice amministrativo sulla legittimità del rifiuto. Ed il giudice delle leggi ha evidenziato che "sul piano costituzionale non si pone per il legislatore, come soluzione obbligata, la sospensione del procedimento penale, quando sia pendente avanti ad un altro giudice una controversia che debba risolvere una questione su un atto, pregiudiziale alla definizione del primo processo. Anzi in sede di disciplina positiva si è andato affermando il principio della separazione dei giudizi e della autonomia ed indipendenza delle giurisdizioni civile, amministrativa e tributaria da un lato e penale dall'altro, con le sole previsioni di ipotesi derogatorie tassativamente previste dalla legge, ritenendosi di privilegiare, anche in sede penale, l'esigenza di sollecita definizione del processo. La scelta di sospensione del corso dell'azione penale fino alla definizione della controversia giurisdizionale amministrativa, fermi tutti i poteri di autonoma vantazione del giudice penale, è tutt'altro che obbligata e razionalmente il legislatore non ha inteso effettuarla” (cfr, Cass., Sez. 3^, 5/11/1999, Barbieri). 5.3. IL RICORSO AL T.A.R. AVVERSO IL PROVVEDIMENTO DI DEMOLIZIONE “IUSSU IUDICIS” ED IL DIFETTO DI GIURISDIZIONE DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO. Per completezza va detto che allorquando l’ordine di demolizione dell’autorità comunale sia stato emesso in esecuzione di sentenza di condanna contenente la sanzione della demolizione dell’opera edilizia abusiva, quest’ultima “deve considerarsi statuizione sanzionatoria giurisdizionale soggetta alle regole sulla esecuzione contenute negli artt. 665 e ss. c.p.p.” ( Cass. SS.UU., 24 luglio 1996, n. 15; Cass., Sez. III, 14 febbraio 2000; Sez. III, 22 gennaio 2001; Circolare Ministero della Giustizia, 20 novembre 1997, prot. n. 62/4/13-2186 ). Consegue che, a fronte di un ricorso proposto per l’annullamento di detto provvedimento, emesso “iussu iudicis”, il giudice amministrativo difetta di giurisdizione ( T.A.R. Sicilia – Catania, Sez. I, 19 settembre 2005, n. 1409; T.A.R. Campania – Napoli, Sez. III, 21 giugno 2007, n. 8744 ). 6. L’ESECUZIONE DELL’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E GLI ASPETTI ECONOMICO - FINANZIARI. 6.1. LA LEGITTIMAZIONE AD AGIRE DEL PUBBLICO MINISTERO. L’organo promotore della esecuzione dell’ordine giudiziale di demolizione va identificato, ai sensi dell’art. 665 c.p.p., nel pubblico ministero, il quale deve anche stabilire le modalità più opportune per il raggiungimento dello scopo. Tali modalità possono comprendere “non solo il ricorso al genio militare o ad altri organi indicati nelle circolari ministeriali emanate al riguardo, ma anche il preavviso all’esecutato o ad altri eventuali interessati ( per esempio terzi occupanti dell’immobile abusivo ) al fine di informarli della concreta esecuzione della demolizione e di metterli in grado di collaborare alla stessa, ovvero di ricorrere al giudice della esecuzione nell’ipotesi in cui ritenessero di contestare le modalità stabilite dallo stesso P.M.; solo in caso di controversia sul titolo o sulle modalità esecutive si attiva la competenza del giudice dell’esecuzione” ( Cass., Sez. III, 18 maggio 1999, Strambi ). 6.2. LA CONTROVERSIA SULLE MODALITÀ DI ESECUZIONE E LA COMPTENZA DEL GIUDICE DELLA ESECUZIONE. La richiesta volta ad attivare questa funzione giurisdizionale deve avere ad oggetto la controversia da risolvere e deve presentare i caratteri propri della domanda giudiziale, nelle sue essenziali componenti di “petitum” e “causa petendi” ( Cass., Sez. III, 12 maggio 2000, Masiello; Sez. III, 24 febbraio 1999; Sperandio; Sez. III, 13 novembre 2000, Rollo ). Con la sentenza “Monterisi” del 24.7.1996, le Sezioni Unite precisavano, invece, che gli organi del procedimento sono “il pubblico ministero e il giudice dell’esecuzione” e che la procedura si articola essenzialmente in due fasi: “La prima, necessaria, prende avvio dalla diffida rivolta dal P.M. al condannato di demolire l’opera abusiva; se il condannato non adempie all’ingiunzione e non vi ottempera completamente si apre una seconda fase eventuale, che vede il P.M. rivolgersi al giudice dell’esecuzione per la fissazione delle modalità e delle prescrizioni, previa instaurazione del contraddittorio ai sensi degli artt. 665 e 666 c.p.p.”. Sotto altro profilo si è affermato che: “All’esecuzione dell’ordine di demolizione deve provvedere il P.M. al quale non è, a tal fine, consentito, quando sul punto non sia intervenuto alcun contrasto, chiedere preliminarmente al giudice dell’esecuzione l’indicazione delle modalità con le quali l’operazione deve essere effettuata”. “Correttamente viene dichiarata inammissibile dal giudice dell’esecuzione la richiesta del p.m. che, in assenza di qualsiasi controversia circa la legittimità o l’eseguibilità dell’ordine di demolizione di una costruzione abusiva, emesso con la sentenza di condanna, ai sensi dell’art. 7, ultimo comma, l. 28 febbraio 1985, n. 47, sia finalizzata ad ottenere che il detto giudice definisca le modalità con le quali la demolizione, non avendovi provveduto il condannato, debba essere coattivamente effettuata” ( Cass., Sez. III, 23 marzo 1999, Crisafulli ). “La mera inottemperanza all’ordine di demolizione non è idonea a costituire, né ad instaurare un procedimento innanzi al giudice dell’esecuzione, ma rappresenta esclusivamente il presupposto per l’esecuzione coattiva del suddetto ordine di competenza del p.m., al quale spetta pure provvedere alla previa determinazione delle prescrizioni all’uopo necessarie” ( Cass., Sez. III, 19 marzo 1999, Sartor ). 6.3. LA CIRCOLARE MINISTERIALE DEL 29.11.1997 E L’APPLICABILITÀ, IN VIA ANALOGICA, DEGLI ARTT. 612 E 613 C.P.C.. Con circolare del 29.11.1997, il Ministero della giustizia ha precisato, fra l’altro, che, “in caso di ricorso ad impresa privata, non può escludersi che, dovendosi fissare modalità, prescrizioni e scelte di natura largamente discrezionale sull’affidabilità e capacità delle imprese, l’Autorità giudiziaria ritenga che alle incombenze di cui si parla debba provvedere il giudice dell’esecuzione all’esito della procedura di cui agli artt. 665 e 666 c.p.p.”. In tale ipotesi, in mancanza di un’espressa disciplina al riguardo, considerato che il giudice dell’esecuzione deve essere posto in grado di eseguire i provvedimenti demolitori contenuti nella sentenza del giudice di cognizione, potrebbero applicarsi le norme del codice di procedura civile in analogia con le disposizioni che regolano l’esecuzione forzata degli obblighi di fare ( artt. 612 e 613 c.p.c. ). Ciò in quanto queste ultime – e tra esse quella che concerne “le persone che debbono provvedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella compiuta ( art. 612 cpv., ult. parte, c.p.c. ) hanno carattere di generalità, per cui appare possibile e corretto, in conformità alla lettera e alla ratio dell’art. 14 delle preleggi, il ricorso all’istituto dell’analogia per colmare l’eventuale lacuna rilevabile nell’ordinamento processuale penale”. 6.4. L’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE E LE OPERE NON COPERTE DAL TITOLO ESECUTIVO. Potrebbe verificarsi che alla esecuzione dell’ordine di demolizione si frappongano opere aggiunte in prosecuzione per le quali non si è ancora formato il titolo giudiziale che ne legittima la rimozione. In tal caso, qualora solo uno dei due processi, non riuniti per connessione davanti a un unico giudice, sia definito con sentenza di condanna o a seguito di patteggiamento e passata in giudicato, “l'esecuzione dell'ordine di demolizione non resta automaticamente paralizzata per la pendenza dell'altro processo riguardante la parte dell'opera proseguita, ma rientra nella competenza del giudice dell'esecuzione, investito dal pubblico ministero in seguito all'inadempimento della diffida a demolire, a provvedere in coordinamento con gli eventuali provvedimenti emessi, oltre che in sede amministrativa, anche nel processo penale parallelo. Allo stesso modo, sotto il profilo oggettivo, il solo fatto che resti in corso l'accertamento giurisdizionale in merito alla parte successiva e ulteriore della costruzione non è di per sè di ostacolo all'esecuzione dell'ordine di demolizione, considerando, da un canto, che l'opera è unitaria e non può essere solo in parte legittima, e, dall'altro, che il giudice penale, ove ne ricorrano i presupposti, ha la possibilità di ordinarne il sequestro probatorio, del quale il giudice dell'esecuzione dovrà ugualmente tener conto” ( così Cass., Sez. III, 14 febbraio 2000, n. 700; negli stessi sensi, Cass., Sez. III, 18 gennaio 2001, n. 10248 ). In senso parzialmente (ed apparentemente) difforme, vedasi, però, Cass., Sez. III, 14 febbraio 2000, Vaccaro, secondo cui: “Allorchè due procedimenti si instaurino in ordine alla medesima costruzione abusiva, avendo per oggetto le singole articolazioni di essa, successivamente realizzate, qualora uno solo dei due processi sia definito con sentenza passata in giudicato, l’ordine di demolizione non resta automaticamente paralizzato per la pendenza dell’altro processo riguardante la parte dell’opera proseguita; in tal caso, rientra nella competenza del giudice dell’esecuzione, investito dal p.m. in seguito all’inadempimento della diffida a demolire, provvedere in coordinamento con gli eventuali provvedimenti emessi nel processo penale parallelo”. 7. IL RICORSO ALLE STRUTTURE TECNICO – OPERATIVE DEL MINISTERO DELLA DIFESA O ALLE IMPRESE PRIVATE PER LA MATERIALE ESECUZIONE DELL’ORDINE GIUDIZIALE DI DEMOLIZIONE. Di quali strutture tecnico – operative si avvarrà il magistrato procedente per la materiale esecuzione dell’ordine di demolizione o dell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi previsto dall’art. 181, comma 2, del d.lge n. 42 del 2004? 7.1. LE NOVITÀ INTRODOTTE DAL D.P.R. DEL 30 MAGGIO 2002, N. 115. Il d.p.r. n. 115 del 30 maggio 2002 in materia di spese di giustizia ha stabilito, all’art. 61, che “1. Il magistrato che cura l'esecuzione di sentenze recanti ordine di, o aventi ad oggetto la, demolizione di opere abusive e di riduzione in pristino dello stato dei luoghi chiede, tramite i provveditorati alle opere pubbliche, l'intervento delle strutture tecnico-operative del Ministero della difesa, o affida l'incarico ad imprese private, ai sensi dell'articolo 41, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, quando reputa più oneroso, sulla base di valutazioni oggettive, l'intervento delle prime”. Lo stesso d.P.R. n. 115 ha previsto che: “1. Con apposita convenzione organizzativa fra il Ministero della giustizia, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e il Ministero della difesa sono disciplinate le procedure per l'intervento delle strutture tecnico-operative del Ministero della difesa e per la quantificazione preventiva e successiva delle spese, nonché gli eventuali acconti e le necessarie regolazioni contabili, anche con riferimento all'esito dell'eventuale recupero delle spese nei confronti del soggetto obbligato” ( art. 62 ). “1. L'importo da corrispondere alle imprese private cui è affidato l'incarico è determinato utilizzando come parametro di riferimento, anche in analogia, il prezzario per le opere edili e impiantistiche dei provveditorati alle opere pubbliche delle Regioni. 2. L'importo da corrispondere alle strutture tecnico-operative del Ministero della difesa è quello risultante ai sensi della convenzione di cui all'articolo 62” (art. 63). “1. La liquidazione dell'importo dovuto alle imprese private o alle strutture tecnico-operative del Ministero della difesa, che hanno eseguito la demolizione di opere abusive e di riduzione in pristino dei luoghi, è effettuata con decreto di pagamento motivato dal magistrato che procede. 2. Il decreto di pagamento alle imprese private è comunicato al beneficiario e alle parti processuali, compreso il pubblico ministero” ( art. 169 ). 7.2. LA CONVENZIONE INTERMINISTERIALE DEL 15 DICEMBRE 2005. La convenzione in esame contiene, all’art. 1, le definizioni della espressione “demolizione di opera abusiva”, individuata nell’attività’ diretta all’ abbattimento totale o parziale dei volumi edilizi e di ogni altro manufatto realizzato in violazione delle norme urbanistico-edilizie, in esecuzione dell’ordine impartito dal giudice, ai sensi dell’art. 31, comma 9, del testo unico di cui al d.P.R. n.380 del 2001 e dell’espressione “rimessione in pristino dello stato originario dei luoghi”, individuata nell’attività diretta alla rimozione totale o parziale delle opere e di ogni altro manufatto realizzato su beni paesaggistici, nonché al ripristino delle condizioni preesistenti la violazione, in esecuzione dell’ordine impartito dal giudice, ai sensi dell’art. 181, comma 2, del d.lgs n. 42 del 2004. In entrambi i casi, la convenzione esclude, tuttavia, dalle attività le operazioni di sgombero delle macerie e, comunque, tutte le altre attività estranee alle competenze tecniche delle strutture tecnico-operative del Ministero della difesa (art. 1). Il magistrato, che cura l’esecuzione delle sentenze contenenti l’ordine di demolizione o di riduzione in ripristino, una volta che abbia reputato piu’ oneroso, ovvero oggettivamente impossibile affidare l’incarico ad imprese private, deve richiedere l’intervento delle strutture tecnico -operative del Ministero della difesa, trasmettendo la relativa richiesta, con allegata documentazione tecnica, al Servizio integrato delle infrastrutture e trasporti (c.d. Siit), competente per territorio in relazione alla località in cui si trovano le opere da demolire o il luogo da ridurre in pristino; tale domanda va, altresì, inviata per conoscenza al Ministero della difesa (art. 4). La richiesta deve anche espressamente contenere la clausola liberatoria a favore dell’ amministrazione della difesa e del personale dell’unità tecnico-operativa, per i danni occasionali eventualmente arrecati alle cose e alle infrastrutture, anche di terzi o, comunque, non espressamente oggetto dell’intervento di demolizione (art. 6, comma 8). Il Siit, entro trenta giorni dal ricevimento della predetta richiesta, la trasmette al Ministero della difesa unitamente alle proprie eventuali osservazioni tecniche sulle modalità di esecuzione dell’intervento e ad ogni altra informazione utile (art. 5). Il Ministero della difesa, quindi, una volta ricevuta la richiesta di intervento dal Siit, corredata dalle eventuali osservazioni tecniche, promuove le necessarie attività ricognitive, anche presso le amministrazioni locali competenti, e trasmette al magistrato richiedente, entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta stessa, un parere motivato sulla fattibilità tecnico-operativa dell’intervento, indicandone i relativi costi, il tempo necessario ed ogni altro elemento reputato utile per la sua esecuzione ( art. 5). Il magistrato richiedente, valutato il parere di fattibilità, se ritiene che l’intervento sia conveniente dal punto di vista economico, ne dà comunicazione per iscritto al Ministero della difesa, al Siit competente per territorio, nonché al prefetto della provincia e al sindaco del comune dove l’intervento deve essere eseguito (art. 6, comma 1). Il Ministero della difesa, quindi, ricevuta la conferma dell’incarico, individua senza ritardo l’unità competente all’esecuzione dell’intervento e affida ad essa l’incarico ( art. 6, comma 2). Una volta iniziata l’attività, il magistrato adotta ogni provvedimento necessario al fine di risolvere eventuali difficoltà operative: egli può addirittura sospendere, nei casi urgenti, le operazioni e deve, in ogni caso, attraverso la polizia giudiziaria e d’intesa con il prefetto competente per territorio, predisporre le misure necessarie per garantire l’ordine e la sicurezza pubblica ( art. 6, commi 5 e 6). 7.3. IL GIUDIZIO COMPARATIVO SUI COSTI. L’intervento del Ministero della difesa può essere richiesto soltanto allorché l’affidamento dell’incarico alle imprese private si presenti oggettivamente più oneroso ovvero impossibile (art. 4). Orbene, ai fini di questa valutazione di economicità, il magistrato deve fare riferimento al capitolato dei lavori di demolizione delle opere abusive che entro il giorno 31 ottobre di ogni anno il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, d’intesa con il Ministero della difesa, deve predisporre e trasmettere al Ministero della giustizia per l’ulteriore divulgazione a tutti gli uffici giudiziari (art. 3, commi 1 e 3). La convenzione, tuttavia, fa salvi eventuali costi aggiuntivi derivanti dalla particolarità del singolo intervento (art. 3, comma 2). Allo stato, ai fini di tale giudizio comparativo deve tenersi conto del capitolato provvisorio del 2006, non risultando ancora approvato quello definitivo, oltre che del prezzario delle opere pubbliche approvato dalle regioni. 7.4. LA COPERTURA FINANZIARIA. Il fondo cui occorre attingere per il finanziamento delle attività di demolizione delle opere abusive ( non per quelle di riduzione in pristino dello stato dei luoghi) è quello istituito presso la Cassa depositi e prestiti s.p.a dall’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del 2003, destinato a concedere anticipazioni senza interessi sui costi relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive anche disposti dall’autorità giudiziaria. Al fine di poter utilizzare il predetto fondo, la convenzione (art. 7) prevede che, successivamente alla emissione del decreto di pagamento la parte del magistrato ( ex art. 169 del testo unico), l’ufficio che ne cura materialmente l’emissione debba, ai sensi dell’art. 7, comma 5, sospendere la compilazione dell’apposito modello previsto dall’art. 167 del testo unico (quest’ultimo consente al beneficiario di poter ottenere immediatamente il denaro, recandosi presso l’ufficio postale deputato ad anticipare i fondi del capitolo di bilancio del Ministero della giustizia relativo alle spese di giustizia). Quindi, la cancelleria, decorso il termine per l’opposizione di pagamento o, in caso di opposizione, rigettata l’eventuale istanza di sospensione dell’esecuzione provvisoria, comunica il decreto di pagamento, unitamente al provvedimento di demolizione, al comune del luogo dove l’intervento deve essere eseguito e alla cassa depositi e prestiti s.p.a., ai fini della concessione del finanziamento (art. 7, comma 6). In caso di concessione, totale o parziale del finanziamento, l’ufficio che dispone il pagamento ne dà comunicazione all’amministrazione della difesa e la autorizza ad avvalersene presso il comune interessato (art. 7, comma 8). L’amministrazione della difesa, ottenuto il pagamento, ne dà quindi comunicazione all’ufficio giudiziario (art. 7, comma 9). Nell’ipotesi in cui il finanziamento in tutto o in parte non sia concesso, ovvero nell’ipotesi in cui l’intervento concerna la riduzione in pristino, l’ufficio che dispone il pagamento avvia l’ordinaria procedura di pagamento prevista dal testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002, attingendo al capitolo di bilancio relativo alle spese di giustizia ( art. 7, commi 3 e 10). 7.5. LE CIRCOLARI DELLA CASSA DEPOSITI E PRESTITI S.P.A. REGOLANTI LA MATERIA. La disciplina per l’accesso al fondo per le demolizioni è stata dettata da due circolari della Cassa Depositi e Prestiti s.p.a., la prima in data 28 ottobre 2004, n. 1254, la seconda in data 2 febbraio 2006, n. 1264, che ha aggiornato la procedura istruttoria del fondo, in particolare in ordine alla fase della concessione. I punti essenziali sono i seguenti: “1.Possono accedere al finanziamento solo i comuni, nel cui ambito territoriale si è realizzata l’opera abusiva, oggetto di un provvedimento di demolizione. 2. Sono ammessi al finanziamento esclusivamente i costi relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive, nonché le spese giudiziarie, tecniche e amministrative connesse. 3. Il finanziamento consiste in un’anticipazione, senza interessi, a valere sulle risorse del Fondo, che ha natura rotativa”. Nel contratto di anticipazione dovrà essere inderogabilmente previsto che: “1. A garanzia dell’esatto adempimento delle obbligazioni assunte con il contratto di anticipazione, il comune rilascia, per tutta la durata dell’anticipazione, delegazione di pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 206 del Testo Unico, relativo all’esercizio nel quale è stato previsto il ricorso all’anticipazione”. “Il comune si obbliga a rimborsare l’importo dell’anticipazione e a pagare la spesa di gestione del fondo in un'unica soluzione entro 60 ( sessanta) giorni dalla data di effettiva riscossione delle somme a carico degli esecutori degli abusi”. “Il comune si obbliga a rispettare tale termine anche nel caso in cui la riscossione sia effettuata da parte di altra autorità competente”. Fermo restando quanto previsto al precedente comma, il Comune è, comunque, obbligato a rimborsare l’importo dell’anticipazione e a pagare la spesa di gestione del fondo, entro e non oltre il termine massimo di rimborso ( cinque anni ), Il comune si obbliga ad effettuare sul bilancio pluriennale l’impegno di spesa relativo alle somme occorrenti al rimborso della somma anticipata e al pagamento della spesa di gestione del fondo. In caso di mancato rimborso dell’anticipazione nel termine massimo di rimborso, il Ministro dell’Interno provvederà, ai sensi dell’articolo 1 del DM 23 luglio 2004, alla restituzione delle somme anticipate, unitamente alla corrispondente quota delle spese di gestione del fondo ed agli interessi di mora, calcolati al saggio di interesse legale, a decorrere dal giorno successivo alla scadenza del termine sino a comprendere quello dell’effettivo versamento, trattenendo le relative somme dai fondi del bilancio dello Stato da trasferire a qualsiasi titolo al comune inadempiente, ivi comprese le quote annuali a questo spettanti a titolo di compartecipazione al gettito IRPEF in sostituzione dei trasferimenti erariali. Resta fermo che, in caso di insufficienza dei trasferimenti erariali, il comune è obbligato al rimborso per la parte non trattenuta dal Ministero”. In caso di inadempimento, il contratto di anticipazione sarà risolto e il comune dovrà, entro 15 giorni dalla richiesta della cassa, rimborsare l’importo erogato maggiorato dalla spesa di gestione del fondo e degli eventuali interessi di mora fino al giorno dell’effettivo pagamento, nonché un importo pari allo 0,125% della somma anticipata. 8. CONCLUSIONI. Riassumendo, il procedimento di esecuzione ha inizio con un’attività propulsiva del pubblico ministero ma è destinato a concludersi presso il comune nel cui territorio è stato accertato e sanzionato l’abuso. Se il comune, attraverso i suoi organi ed, in particolare, il responsabile del procedimento, verrà meno ai suoi obblighi, la “gioiosa macchina da guerra” ideata dal legislatore oltre venti anni or sono ( e prima d’oggi solo di rado messa in campo ) sarà costretta a cedere il passo. Né eventuali processi penali a carico dei responsabili per omissione o abuso di ufficio potranno, in tal caso, rappresentare un utile rimedio per il conseguimento dell’obiettivo. Occorre, tuttavia, ricordare che la norma che attribuisce ai pubblici ministeri il potere di richiedere direttamente, nell’esercizio delle loro funzioni, l’intervento delle forze armate ( ovvero l’art. 15 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 ) è ancora in vigore e potrebbe rappresentare l’ultimo ed insuperabile presidio a difesa del sistema. (Torna all'inizio)